Non si parli mai di 'gita' ad Auschwitz È un viaggio, anzi è un pellegrinaggio
sabato 25 gennaio 2020

Gentile direttore, sento parlare di 'gite scolastiche ad Auschwitz'. Insegnanti che accompagnate e accompagnerete gli studenti, non chiamate mai 'gita' questo viaggio. Quello ad Auschwitz è un pellegrinaggio, da fare in silenzio, possibilmente senza cellulari, sentendo un po’ di fame e un po’ di freddo. 'Gita' è una parola orribile per indicare la visita di 'campi' dove le persone sono morte solo per la colpa di essere nate.

Celso Vassalini Brescia

Non conosco persone, non conosco ragazze e ragazzi che siano stati ad Auschwitz e siano rimasti indifferenti a ciò che resta del campo di sterminio nazista e all’immensità incancellabile dell’orrore che in quel lembo di terra (e purtroppo non solo lì) è stato commesso. Non conosco persone, non conosco studenti e studentesse che, tornando da Auschwitz, abbiano raccontato lievemente di una 'gita'. Questo, gentile e caro signor Vassalini, per dirle che lei ha ragione a sostenere che si tratta di un pellegrinaggio e non di una semplice gita e che le parole devono – dovrebbero – essere sempre all’altezza dei fatti e delle situazioni che descrivono ed evocano. Ma anche per sottolineare ancora una volta che non tutte le parole sono offensive ('gita scolastica' non lo è). E per ripeterci che ciò che conta in un viaggio, in un pellegrinaggio, in un’esperienza, in un incontro sono non solo e non tanto le parole che abbiamo prima, ma quelle che abbiamo dopo e che non ci escono più dal cuore, dalla testa, dall’anima. Abbiamo bisogno di fare nostre parole alte e forti, umanissime e nobili, come quelle di condanna e d’amore che ci ha consegnato e ha reso indelebili – vorrei confermarglielo con affettuosa gratitudine – Liliana Segre, ieri internata e oggi senatrice a vita della Repubblica. Parole asciutte e taglienti come 'mai più': mai più odio razziale, mai più pretese di supremazia etnica, mai più distruzione morale e materiale dell’altro perché diverso, mai più propagande mistificanti e assassine. Parole e gesti indispensabili, in un’Italia dove non ci si vergogna di graffiare odiose e inaccettabili scritte antisemite sulla porta della casa del figlio di una partigiana deportata a Ravensbruck. Nelle poche e vibranti righe della sua lettera, caro amico lettore, c’è l’eco di un 'consiglio' che proprio la senatrice Segre ha dato e dà a quanti si mettono in cammino per Auschwitz e si apprestano a entrare nel recinto del campo di sterminio: mangiate meno di quanto vorreste, copritevi meno di quanto sarebbe giusto. Fatelo per 'sentire' almeno un po’ della fame e del freddo che provavano gli ebrei e gli altri perseguitati destinati a morte dai macellai nazisti. Ecco: abbiamo bisogno più che mai di trovare e trasmettere parole e gesti che ci aiutino a 'sentire' il male, per non ripeterlo. Mai più.

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