venerdì 19 dicembre 2014
Sindaci o revisori, come cambiare la vigilanza sulle coop. Si tratta di sviluppare anche nel non profit le regole del "buon padre di famiglia". (Adriano Propersi)
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Le recenti indagini su Mafia Capitale ripropongono una tematica già vista. Gli scandali toccano soggetti non profit (cooperative sociali, fondazioni e associazioni) che abusano della veste giuridica, che fa presumere finalità non lucrative, per compiere atti ed operazioni illecite portando vantaggi diretti agli amministratori e ai soci occulti. Se guardiamo nell’"archivio reati" del Paese possiamo ricordare centinaia di scaldali fiscali, di abuso nella raccolta fondi (ricordiamo la missione Arcobaleno, o gli interventi umanitari per vari eventi sismici, ad esempio) e di distrazioni di risorse. A questo punto c’è da chiedersi se tutto ciò rientra nella statistica che riguarda una minoranza di soggetti delinquenti, come avviene anche nel settore delle imprese e della Pubblica Amministrazione, o se invece il fenomeno è indotto anche da una carenza di attenzione da parte del legislatore e dei regolatori all’attività del mondo cooperativo e del Terzo Settore.

Controlli meno efficaci

Non possiamo non partire dalla considerazione che gli enti non profit sono aziende, cioè organizzazioni di beni e persone che svolgono un’attività istituzionale con contenuti anche economici, svolta senza finalità lucrative. Come le altre aziende (imprese ed enti pubblici) per garantire il perseguimento delle proprie finalità devono gestire le risorse, sempre scarse, in modo efficace ed efficiente e dotarsi di adeguati sistemi di governance che garantiscano il perseguimento e il rispetto del fine dell’ente. A differenza delle imprese – dove prevalgono gli interessi "proprietari" che si fanno carico della gestione e ne indirizzano gli atti e le finalità – negli enti non profit manca questa figura definita di "titolarità della gestione": la gestione è demandata a una governance affidata agli amministratori che non hanno il controllo diretto dei portatori del capitale di rischio, come invece avviene nelle imprese. Negli enti non profit si ha quindi per natura un sistema di controllo meno efficace rispetto alle imprese. Ciò avviene anche rispetto alla Pubblica Amministrazione, ove non esistono interessi proprietari ma c’è comunque una normativa di settore molto pregnante e definita che garantisce il perseguimento del fine dell’ente, senza dimenticare la presenza di controlli da parte della Corte dei Conti che ha poteri di intervento con sanzioni sia civili che penali. Questa situazione di fatto e di diritto consente più facilmente a soggetti spregiudicati di "impossessarsi" della gestione dell’ente anche a vantaggio di interessi propri o di terzi e comunque non leciti.

Il rischio di una «giungla»

La natura peculiare del soggetto non profit evidenzia una debolezza strutturale che non è stata nel tempo colmata con adeguate misure normative, volte a garantire la correttezza dei comportamenti degli enti pur in presenza di una crescita continua e tumultuosa delle dimensioni del Terzo Settore. Ci si è limitati cioè a ritenere che la natura ideale, umanitaria, sociale del settore inducesse di per sé comportamenti etici, senza necessità di introdurre misure cautelari specifiche. Al riguardo basti pensare che le norme civilistiche fondamentali fissate dal libro primo del codice civile agli art.14/47 sono estremamente scarse e ad esempio non prevedono nemmeno l’obbligo della redazione del bilancio né l’adeguatezza minima di patrimonio degli enti; anche le regole di governance sono estremamente limitate e non è previsto l’obbligo di controlli esterni sulla gestione.

Lo sviluppo del settore a dire il vero è stato accompagnato anche da normative speciali che hanno supplito alla carenza civilistica introducendo norme settoriali per le organizzazioni di volontariato, le cooperative sociali, le Ong, le onlus, le imprese sociali ecc. che hanno via via introdotto anche norme attinenti il controllo e la rendicontazione degli enti. La norma fiscale poi, in ragione dell’abuso che nel tempo si è fatto dello strumento giuridico non profit, ha anch’essa supplito stabilendo regole di governance e di rendicontazione a garanzia dell’effettiva attività non lucrativa svolta dagli enti. Ad oggi possiamo però comunque affermare che il settore è una "giungla" o una "galassia" che dir si voglia di norme non coordinate e organiche che lasciano spazio comunque a comportamenti anche non corretti senza specifiche previsioni di cautele regolamentari.

I «tasselli» necessari per una riforma

Da anni si parla della necessità di trasparenza degli enti e si richiede la redazione di bilanci e relazioni degli amministratori chiari e leggibili, ma è ancora radicata nel settore la tendenza alla riservatezza, spesso giustificata da esigenze di tutelare il perseguimento delle finalità dell’ente, ma che anche lascia spazio ad abusi non controllabili. Non esistono poi registri ufficiali, come per le imprese con il Registro delle Imprese tenuto dalle Camere di Commercio, ove attingere informazioni essenziali sull’ente, sugli organi sociali e sui rendiconti; coesistono invece vari registri regionali, provinciali e nazionali scoordinati e con informazioni parziali. È ormai una "litania" recitata da tempo e da tutti quella di richiedere la revisione del libro primo del codice civile e di uniformare e semplificare le norme fiscali del Terzo Settore. Ora la riforma del Terzo Settore proposta da Renzi sembra aprire la strada ad una riforma organica, che si augura possa arrivare in porto entro il 2016. Gli obiettivi che si propone il disegno di legge delega sono validi e coerenti con le esigenze del Terzo Settore e dovranno tenere conto della natura peculiare degli enti sopra brevemente indicata e quindi sopperire ai limiti genetici dei soggetti del Terzo Settore. C’è da augurarsi che sia portata avanti una riforma a tutto campo e che includa tutti i soggetti non profit, partiti politici e sindacati inclusi. Facendo riferimento alla vicenda romana cerchiamo di evidenziare alcuni "tasselli" che dovrebbero essere ordinati per rendere incisiva la normativa per il Terzo Settore.

Bilanci chiari, trasparenti e pubblici

L’obbligo della rendicontazione economica finanziaria e patrimoniale andrebbe esteso a tutti i soggetti non profit. Le regole essenziali di rendicontazione sono già state emanate dall’Agenzia per il Terzo Settore e si possono trovare sul sito della stessa agenzia presso il ministero del Welfare. Si tratta non di una norma obbligatoria, bensì di un atto di indirizzo che sta gradualmente avendo applicazione nella maggior parte degli enti. Occorrerà renderlo obbligatorio e richiederne la pubblicazione su un unico registro nazionale come avviene per le imprese. L’informativa di bilancio è differenziata in relazione alla dimensione degli enti anche per non gravare di costi gli enti minori. Nella redazione dei bilanci gli enti non profit non possono fare riferimento, come taluni fanno, alle norme delle imprese (art.2423 e seguenti cod. civ.), in quanto nelle imprese il perseguimento della finalità di reddito orienta tutta la struttura del bilancio; la finalità non lucrativa dell’ente richiede invece l’adozione di schemi appositamente costruiti, che diano anche informazioni sulla missione svolta e sui risultati sociali che non possono essere espressi solo dai numeri di bilancio. Gli enti dovranno, ciascuno in relazione alla propria attività, dare informative di missione specifiche con adeguati indicatori di risultato che diano conto dell’attività sociale effettivamente svolta. Dovrà anche essere prevista una norma a tutela e garanzia del patrimonio dell’ente che stabilisca l’entità minima del patrimonio aziendale nei vari casi operativi e siano previste norme di intervento degli amministratori e dei revisori in caso che venga meno l’entità minima del patrimonio aziendale cosi come avviene per le imprese allorquando conseguano perdite che intacchino il patrimonio netto (art.2446 e seguenti cod.civ.). Tale norma eviterebbe situazioni di dissesto aziendale consentendo interventi tempestivi in caso di crisi.

L’informativa sulla governance

La presenza di interessi proprietari portatori di capitale di rischio è fondamentale per chi entra in rapporto con le imprese ai fini della valutazione del rischio di intrattenere relazioni con tali soggetti imprenditoriali. Non è così negli enti non profit caratterizzati, come si è detto sopra, da varie tipologie poco regolamentate che hanno come riferimento normativo principalmente le norme statutarie interne e generalmente poco note ai terzi. Da qui la necessità che in modo sintetico possa apparire in un registro nazionale accessibile a tutti una breve descrizione della governance e dei soggetti responsabili della gestione; sarà così possibile risalire alle persone rappresentative dell’ente, rendendo possibile la valutazione del loro profilo e della loro affidabilità.

Gli strumenti di controllo esterni

Nel tentativo di individuare i tasselli per rendere più efficaci le norme sul Terzo settore, sarà anche necessario che si prevedano forme di controllo esterno (revisore unico o collegio di revisori) con la presenza di professionisti indipendenti che garantiscano la regolarità della gestione sia sul piano della governance che della rendicontazione. Si può in sostanza mutuare il sistema di controllo adottato nelle società di capitali con il collegio sindacale. A questo proposito, proprio con riferimento alla vicenda romana, che ha coinvolto soprattutto società cooperative, occorrerebbe anche mettere mano al sistema di controllo in essere nel mondo cooperativo, ove le verifiche di regolarità sono affidate o al ministero del Welfare o alle Centrali Cooperative che garantiscono la regolarità dei soggetti iscritti nelle loro liste. È questo un controllo molto a distanza, spesso delegato e comunque quasi sempre tardivo rispetto ad eventi gravi quali irregolarità o crisi aziendale. Non è forse giunto il momento di soprassedere a questo sistema di controllo centralizzato e dare credito alla capacità professionale di revisori esterni che, responsabilizzati e formati con specifico riferimento al settore cooperativo, rispondano della legalità e del corretto comportamento degli enti cooperativi stessi? Non c’è dubbio che questo sia un passaggio difficile che troverebbe ostacoli vari di natura politica e organizzativa, ma che forse graduato e programmato con altri interventi potrebbe meglio garantire la regolarità dei soggetti stessi. Naturalmente nel collegio dei revisori o nei collegi sindacali degli enti dovranno essere nominati soggetti indipendenti senza conflitto di interessi con l’ente da loro controllato, ed anche adeguatamente remunerati. Negli enti di maggiori dimensioni sarebbe anche utile affidare il controllo contabile a società di revisione lasciando al collegio dei revisori i compiti di controllo sulla gestione e sulla governance. Proprio ai fini di prevenire i reati penali che sono stati oggetto di Mafia Capitale può essere utile estendere anche agli enti riconosciuti e non, le previsione del Dlgs 231/2001 che si pone l’obiettivo di prevenire il compimento di reati di vario tipo (relativi alla legislazione sul lavoro, alla tutela dell’ambiente, alla corruzione rispetto alla Pubblica Amministrazione e alla corruzione fra privati) con la costituzione di apposito Organismo di Vigilanza che, effettuata una mappatura specifica dei rischi aziendali di compimento di reati, vigili e intervenga sull’organizzazione dell’ente al fine di prevenire i rischi relativi. Per semplificare comunque gli adempimenti e comunque ridurre i costi aziendali, tali compiti potrebbero essere assegnati al collegio dei revisori. Tutto ciò implica comunque un grande sforzo di formazione da parte degli ordini professionali (Dottori Commercialisti e Avvocati) e occorrerà altresì che sia diffuso e condiviso da tutti la necessità di aprire le porte degli enti a soggetti esterni, indipendenti che pongano l’etica professionale alla base della loro attività.

Un regolatore del settore

Con riferimento alla vicenda romana, molti commentatori hanno ricordato che, forse, la presenza di un ente regolatore del sistema del mondo non profit potrebbe servire a prevenire queste forme di reati. Il legislatore già si è espresso nella logica della spending review abolendo l’Agenzia per il Terzo Settore, soggetto indipendente, e attribuendo le funzioni al ministero del Welfare, soggetto pubblico. Si ritiene che tale abolizione sia stata affrettata in quanto l’Agenzia costituita nel 2001 cominciava ad emanare atti di indirizzo importanti per regolamentare il settore: si pensi alle norme sui bilanci di esercizio e di missione, alle regole sulla raccolta fondi e sulle adozioni a distanza; aveva cominciato a studiare l’unificazione dei registri ed ha svolto nel tempo una funzione di controllo avvalendosi anche della collaborazione della Guardia di Finanza. Non c’è dubbio che data la peculiarità del settore e la scarsità di norme regolamentari l’organo di indirizzo e di controllo potrebbe svolgere una funzione utile anche a prevenire il compimento di reati. Naturalmente tale Autority dovrebbe avere la possibilità di avvalersi in modo autonomo dell’azione della Guardia di Finanza e dovrebbero esserle attribuite potestà sanzionatorie. La riforma Renzi in discussione alla Camera prevede una sorta di organismo che agisca sotto la diretta competenza della Presidenza del Consiglio. Occorrerà trovare una formula organizzativa idonea, non costosa ma efficace, per interventi mirati a potenziare il settore e anche a prevenire gli abusi e i reati.

Pubblica amministrazione forte e professionale

Nelle vicende romane è emersa la fragilità della capacità di indirizzo e di controllo da parte della Pubblica Amministrazione che stipula convenzioni e paga i servizi degli enti del Terzo Settore. Non è possibile che l’organizzazione e il sistema del controllo interno della Pubblica Amministrazione consenta a pochi soggetti dipendenti pubblici potestà di decisioni e di pagamento non coerenti con le convenzioni necessarie per attivare soggetti di Terzo settore. Anche qui occorre fare uno sforzo organizzativo per sviluppare forme forti di controllo interno, ed anche uno sforzo formativo per far sì che i pubblici dipendenti siano in grado di valutare l’attività degli enti con cui stipulano convenzioni giudicando specifici indicatori di risultato che non si leggono nei numeri di bilancio, ma che vanno descritti caso per caso evidenziando e misurando in modo oggettivo i vantaggi sociali ottenuti con la convenzione.

L’etica a ogni livello

I reati dei "colletti bianchi" non riguardano solo le imprese, ma ormai si sono trasferiti in modo diffuso sia alla Pubblica Amministrazione che al Terzo Settore. Non c’è dubbio che innanzitutto la prevenzione dei reati debba partire da una diffusione a tutti i livelli dell’etica dei comportamenti ma, vista la situazione contingente, occorrerà anche introdurre forme di regolamentazione per il Terzo Settore che accompagnino le norme etiche. I tasselli sopra individuati possono risultare in parte teorici e possono palesare il rischio di rendere "barocche" le organizzazioni di settore. In realtà ormai proprio la dimensione raggiunta dal Terzo Settore e le prospettive del suo sviluppo esigono di uscire da un sistema artigianale e riservato quale è quello attuale: occorre che il sistema si apra a nuove formule, mutuando anche ciò che di buono si ritrova nelle imprese. In sostanza si tratta di sviluppare anche per gli enti le regole del "buon padre di famiglia" che richiedono un’attenzione alla buona amministrazione aziendale, alla regolarità della gestione e all’efficacia ed efficienza della stessa, per garantire la continuità aziendale ed allontanare il rischio di compimento di reati.

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