Non possiamo lasciare le donne afghane da sole
mercoledì 28 dicembre 2022

Cacciate le giornaliste e le deputate. Minacciate e costrette alla fuga le (poche) amministratrici locali e le attiviste per i diritti umani. Scomparse le impiegate, ridotte alla clandestinità le insegnanti. Estromesse dalle scuole superiori e dalle università le studentesse. La cancellazione delle donne in Afghanistan è quasi completata. L’ultimo editto impone loro il divieto di lavorare per le organizzazioni non governative nazionali e internazionali. Solo nella serata di ieri, dopo concitate trattative tra governo di Kabul e Nazioni Unite, si è avuta la conferma che il bando non riguarda il personale femminile del settore sanitario. Non illudiamoci: è un’eccezione concessa per convenienza e non per convinzione. Alle afghane è proibito farsi curare da operatori uomini e dunque chi avrebbe assistito le partorienti nei presidi ospedalieri gestiti dalle Ong, se fossero sparite le ostetriche e le ginecologhe? Ci si potrà consolare, dunque, pensando che quei pochi ma rilevanti progressi in campo medico che hanno lambito le donne in termini di diminuzione di mortalità infantile e materna non saranno annullati dall’ultima follia talebana, partorita alla vigilia di Natale. Che Laleh, Parwana e le altre 12 specializzande dell’ospedale materno-infantile di Emergency ad Anabah, nella valle del Panshir, continueranno a studiare per diventare ginecologhe, e che nessuna delle 365 afghane che contano per il 21% dello staff della Ong fondata da Gino Strada perderà l’impiego e dunque la possibilità di sostenere la famiglia.

Ma una eccezione faticosamente ottenuta non cambia la sostanza: il divieto di lavorare per le organizzazioni internazionali non compromette soltanto il sacrosanto progetto di una vita libera per migliaia di operatrici umanitarie, ma mette a rischio milioni di vite umane e lo stesso futuro di un Paese che prima o poi dovrà uscire dalla sua notte più buia. Le donne afghane sono letteralmente sepolte vive e solo altre donne possono avvicinarle per distribuire cibo, kit contro la malnutrizione, vaccini, farmaci d’emergenza. Come essere sicuri che le scorte alimentari arrivino fin nelle case, a nutrire le mogli, le madri, le bambine e i bambini, se non ci saranno altre donne a verificare? Action Aid impiega in Afghanistan 97 donne, Azione contro la fame 400, International Rescue Committee addirittura 3.000: sono solo alcune delle Ong che si occupano di alimentazione e che in queste ore hanno sospeso le attività. Una catastrofe soprattutto per le donne ma non solo per loro, visto che, come documenta Lucia Capuzzi in queste pagine, il 60 per cento della popolazione è sfamato dalla cooperazione internazionale: senza di essa l’Afghanistan diventerebbe ben presto un immenso cimitero.

E ancora: solo maestre possono insegnare alle alunne più giovani, le uniche autorizzate ad andare a scuola; solo donne possono accudire le bambine negli orfanotrofi, solo donne possono proteggere le donne abusate nei rifugi, o sostenere il loro equilibrio psicofisico, o avviarle a una minima attività imprenditoriale. Sono questi i settori in cui operano per lo più le 183 Ong registrate nel Paese. Senza operatrici umanitarie, le donne afghane scenderanno un altro gradino del loro inferno in terra. Il regime anacronistico dei taleban si è dimostrato sordo e impermeabile a qualunque pressione, tranne a quella dell’opportunismo, come si è visto nel caso delle Ong del settore sanitario. Una flebile speranza, allora, è che il grande e generoso network di Ong che opera in Afghanistan continui a dialogare con i fondamentalisti, salvi il salvabile giorno per giorno, in attesa che la notte buia si trasformi in una nuova alba.

Quanto a Save the children, Croce Rossa, Christian Aid, Islamic relief, l’italiana Nove e tutte le altre sigle che in queste ore stanno pensando se avranno ancora un domani in Afghanistan, lasciare il Paese è una tentazione, forse una necessità, magari un tentativo di provocare chi con tutta evidenza non ha a cuore la sopravvivenza della sua stessa gente. Ma chiudere i battenti significherebbe abbandonare anche la speranza. Altri l’hanno fatto, governi occidentali in primis, assistendo impotenti al naufragio dei diritti umani e in particolare di quelli delle donne. Chi resta è un avamposto di civiltà, un baluardo che può dar forza e sostegno a quel briciolo di resistenza cui abbiamo assistito nei giorni scorsi, quando gruppi di studenti a Kandahar e Nangarhar hanno lasciato le aule universitarie dalle quali le loro compagne sono state escluse. «Tutti o nessuno», scandivano. È un’utopia pensare che valga lo stesso per le donne in ogni settore della vita sociale? Tutte o nessuno.

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