Non con l'Iva si rifà l'Italia
martedì 23 giugno 2020

Sembra avere più allure politica che sostanza economica la proposta a effetto del premier Giuseppe Conte, quasi una chiosa agli Stati Generali, di tagliare l’Iva quale primo atto concreto per «reinventare l’Italia». Promettere una riduzione delle imposte, in questo caso indirette come quella sul valore aggiunto, garantisce del resto un’apertura di credito interno e pure esterno alle forze di governo.

Il Movimento 5 Stelle si è subito dichiarato favorevole, tralasciando di essersi sempre orientato nella direzione opposta ovvero la riduzione della tassazione sul reddito, misura progressiva – chi più ha più paga – e non di quella sui consumi, che resta un’imposta sostanzialmente regressiva. Anche per il leader della Lega, Matteo Salvini, «ogni taglio delle tasse ha il sostegno del partito», posizione che stride in qualche modo con la strategia dei condoni e delle sanatorie, suo cavallo di battaglia, visto che l’Iva è l’imposta più evasa dagli italiani: 36 miliardi l’anno davanti ai 33 dell’Irpef, una cifra che ci assicura la poco edificante leadership in Europa. Sarebbe cioè più efficiente e vantaggioso recuperare parte dei denari che finiscono nel buco nero dell’evasione, anche per le regole farraginose, prima di intervenire in un senso o nell’altro sui livelli della tassazione.

Si badi, ipotizzare una revisione delle aliquote non è certo un tabù. Se ne parla da 25 anni almeno in Italia, ricordando l’idea tremontiana "Dalle persone alle cose" – era la strada opposta a quella tornata in auge ora, tagliare l’Irpef e aumentare l’Iva – contenuta nel Libro bianco del 1994. Lo stesso suggerimento, per altro, che il Fondo monetario e la Bce rivolgono da tempo al nostro Paese. Non è sicuramente facile trovare il giusto mix tra imposte dirette e indirette per favorire la crescita economica e indirizzarla su un binario più equo e sostenibile. Tuttavia, qualsiasi ragionamento serio sull’Iva nel nostro Paese non può prescindere da tre considerazioni. E la prima è di carattere macroeconomico: in un periodo di bassa inflazione, destinato a durare ancora a lungo, tagliare le aliquote Iva risulta una manovra molto costosa, dai 4 ai 10 miliardi, che potrebbe però avere effetti limitati sui prezzi finali e quindi sull’aumento dei consumi.

La seconda considerazione riguarda le finanze pubbliche e ci costringe a far memoria di ciò di cui si discuteva solo pochi mesi fa, prima che fossimo tutti travolti dal virus, quando nell’autunno scorso, con la Manovra di bilancio 2020 in preparazione, si ipotizzava addirittura di alzare selettivamente alcune aliquote Iva.

L'idea era di non disinnescare del tutto le famose clausole di salvaguardia e colpire consumi dannosi – con esternalità negative, dicono gli economisti – come combustibili o alcol per tagliare in questo modo il cuneo fiscale e aumentare i trasferimenti alle categorie più svantaggiate. Quelle clausole avrebbero potuto pesare sulle tasche degli italiani quasi 50 miliardi, quest’anno e il prossimo, in termini di aumento delle tasse. Dal 2011 a oggi ne hanno già drenati quasi 100. Ma nell’ultimo Documento di economia e finanza, per affrontare la drammatica crisi economica e sociale innescata dal Coronavirus, il ministero dell’Economia ha deciso, grazie alla sterilizzazione del Patto di stabilità, di eliminare tutti gli aumenti dell’Iva e delle accise previsti per gli anni a venire, chiudendo di fatto la partita decennale delle clausole di salvaguardia. L’Iva cioè è stata già 'bloccata', anche se non limata. Come? Aumentando notevolmente il nostro deficit. Per finanziare giustamente tutte le spese eccezionali di sostegno ai lavoratori, alle famiglie e alle imprese, al sistema sanitario e agli enti locali. Arriveranno risorse, anch’esse eccezionali, dall’Europa, ma ci stiamo comunque indebitando per fronteggiare la crisi e il nostro rapporto debito-Pil è destinato a volare verso altezze mai sperimentate fino a quota 170%. Garantirne la sostenibilità è già da ora la sfida del decennio se non vogliamo scaraventare l’intero fardello sulle spalle di chi oggi non ha ancora diciotto anni e alcuna colpa. C’è infine una considerazione relativa al sistema tributario italiano. Che ha smarrito progressività – e quindi equità – a causa del moltiplicarsi di imposte sostitutive e detrazioni, tassazioni alternative e deduzioni, senza contare l’aberrante evasione fiscale che ci contraddistingue. Per questo qualsiasi taglio d’imposta, continua a ricordarlo il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, non può che essere realizzato dentro un progetto complessivo di riforma fiscale. La quale riforma, magari, faccia perno finalmente sul soggetto famiglia e non sul singolo contribuente e ardisca pure un salto culturale per favorire l’irrimandabile transizione ecologica – è il passo che vorrebbero ad esempio compiere i cugini francesi con le 150 proposte dei loro 'Stati generali' che chiamano 'Convenzione civica'. A casa nostra, dopo il 'Piano Colao' e dieci giorni di meritorio e articolatissimo ascolto di così tante espressioni dell’economia e della società italiana, annunciare l’impegno concreto per una vera evoluzione fiscale avrebbe sicuramente avuto minore impatto sul piano politico, ma grande significato su quello della visione per 'reinventare l’Italia'. Chissà, visto che si declina come sempre ogni tentativo di riforma al futuro, anche questa volta, forse, ci sembrerà di essere ancora in tempo.

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