Perché non basta il nazionalismo
venerdì 9 luglio 2021

Joe Biden e Xi Jinping, si incontreranno. Sembra che lo faranno a Roma, nel prossimo ottobre. Sono notizie importanti, in un percorso che è diventato molto accidentato. Xi Jinping ha appena scelto il nazionalismo per celebrare i cento anni del Partito comunista cinese. Nel suo discorso a piazza Tienanmen, ha infatti citato tredici volte il socialismo – una sola volta il comunismo – ma specificando per dodici volte «con caratteristiche cinesi». Nessun riferimento, invece, a Confucio, ma solo qualche cenno alla storia millenaria della Cina e all’ideale confuciano dell’«armonia». Al centro della sua narrazione c’è stata l’«umiliazione» imposta dal colonialismo occidentale a partire dal 1840, da cui la Cina è stata liberata grazie alla lotta vittoriosa del Pcc. È questo il rivendicato "grande merito storico" del Partito comunista cinese e la legittimazione del suo potere oggi, necessario per tenere unito il Paese e affrontare sfide e pericoli (tra cui il declino demografico, cui forse allude indirettamente l’espressione «ringiovanimento nazionale» usata da Xi Jinping venti volte). Da 5mila anni la Cina non ha mai aggredito nessuno e non lo farà in futuro, ma se qualcuno tenterà di "bullizzarla" si romperà la testa (e non: «gli schiacceremo la testa» come hanno tradotto in molti). Fra i tre principi della politica cinese – confucianesimo, comunismo e nazionalismo – è dunque su quest’ultimo che ha puntato Xi Jinping.

Ma può bastare il nazionalismo mentre nel mondo sono in corso «cambiamenti che si verificano una volta in un secolo»? Che non possa bastare lo fa capire l’atteggiamento dell’altro grande protagonista di tali cambiamenti. Dopo aver lasciato che si parlasse di guerra fredda con la Cina, gli Stati Uniti d’America stanno correggendo la rotta, riconoscendo, come ha fatto il segretario di Stato Tony Blinken a Roma, che quelle con la Cina sono le più complicate tra «le relazioni che abbiamo a livello internazionale» e che quest’ultima va trattata contemporaneamente come «un avversario, un rivale e un partner». Lo aveva già anticipato il premier italiano Mario Draghi al G7 in Cornovaglia, indicando tre parole chiave nei rapporti con la Cina: cooperazione, competizione e franchezza. Il fatto è che di tratta di relazioni davvero complesse e su piani diversi: c’è la competizione per l’egemonia in una grande area del mondo, che gli uni chiamano Estremo Oriente e gli altri Indo-Pacifico; c’è la rivalità sul piano tecnologico, con riflessi sulla cybersicurezza; concorrenza e collaborazione si intrecciano necessariamente in rapporti commerciali molto complicati; la cooperazione è obbligata sulle grandi questioni comuni, a partire dal clima; oltre ad accrescere la propria forza militare, è interesse di entrambi accordarsi per una limitazione degli armamenti; sul piano ideologico e politico, infine, Cina e Stati Uniti devono dimostrare la superiorità del proprio sistema...

Non si è mai vista nella storia un insieme così diversificato, intrecciato e contraddittorio di rapporti tra grandi potenze. Le relazioni sino-americane sono così complicate che non possono essere lasciate solo a Stati Uniti e Cina. È necessario che altri soggetti aiutino le due superpotenze a rimodellare, aggiustare e correggere continuamente i loro rapporti, in primis l’Europa. Quest’ultima parla a più voci, tra cui quella italiana, specialmente oggi, quando Mario Draghi ha ridato autorevolezza all’Italia in campo internazionale. Forse non è casuale che si ipotizzi a Roma il possibile incontro tra Biden e Xi. Di sicuro non lo è stato che Blinken abbia sottolineato durante la sua visita in Italia la complessità dei rapporti Usa-Cina, aggiungendo che Washington non imporrà a nessuno di scegliere tra Stati Uniti e Cina e che accetta la diversità di rapporti di ogni Paese (occidentale) con quest’ultima.

Gli ha risposto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ribadendo le fortissime relazioni italiane con Usa e Nato, ma aggiungendo che l’Italia è un forte partner commerciale e ha «relazioni storiche» con la Cina. Fine delle polemiche sull’adesione italiana alla via della Seta. E forse inizio di qualcos’altro.

L’Italia di Mario Draghi è accreditata come solidamente atlantica ed europeistica. Lo era anche la Dc: durante la guerra fredda, Roma era considerata l’alleato più sicuro di Washington in Europa. Ma proprio per questo – sottolineo: proprio per questo – è stata la Dc a inventare il neoatlantismo e cioè una presenza italiana attenta, articolata e flessibile nelle tante 'terre di nessuno' che si creano in conflitti bipolari. Allora era principalmente Terzo Mondo, ora sono i tanti campi su cui Stati Uniti e Cina non riescono né a scontrarsi né a incontrarsi. Tocca anche all’Italia aiutare a costruire un nuovo ordine mondiale che non può basarsi su opposti nazionalismi.

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