giovedì 20 dicembre 2012
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​In verità non sembra che, qui in Italia, si prenda troppo sul serio la profezia dei Maya. Ne senti sì parlare, ma per gioco. Si discute scherzosamente se convenga o no pagare la rata del mutuo, o prenotare il tacchino per Natale, se poi domani finisce il mondo. Altrove c’è chi ha preparato bunker e scorte per la sopravvivenza; ma non appartiene a noi questa sorta di millenarismo cupo, questa attesa di un destino oscuro e annichilente. Forse è perché nel sangue, nella memoria almeno dei nostri vecchi, abbiamo altro; l’Apocalisse, lo sappiamo, è annunciata e il Giudizio anche, e però ci è stato anche assicurato che abbiamo «un avvocato presso il Padre», ed è uno bravo. Ci è stato detto nei secoli, e tramandato ai figli, che non siamo schegge dentro a un caso cieco, ma invece siamo amati e attesi, uno a uno, da Cristo, che ricapitolerà in sé tutte le cose della Terra e del Cielo. Certo, ad ascoltare gli astrofisici che oggi dipingono un "multiverso", cioè un Universo innumerevole e in continua espansione, governato da una materia e da un’energia "oscure", ci si può sentire così irrilevanti: in bilico come siamo su un pianeta di una qualsiasi galassia, in un Multiverso fra i tanti. E forse che lo stesso Vangelo non annuncia che «Il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli verranno sconvolte»? Ma, ha insegnato Benedetto XVI proprio un mese fa, bisogna legare questi versi a quello che immediatamente li segue: «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria». Cristo, dunque, che compie in sé le profezie dell’Antico Testamento: è lui, dice il Papa, «il vero avvenimento che, in mezzo agli sconvolgimenti del mondo, rimane il punto fermo e stabile». E tutte le creature, ha aggiunto il Papa, e il Sole e la Luna e il firmamento, obbediscono alla Parola di Dio, anzi esistono in quanto «chiamati» da essa. Da quel Logos che è il Verbo fatto carne. In uno sguardo cristiano dunque le profezie di fini del mondo prossime venture perdono consistenza, e non solo perché ci è stato detto che non sappiamo il giorno, né l’ora; ma perché nella fede si scioglie il terrore di una fine che piomba addosso come una ghigliottina, di un niente che ci inghiotte e ci divora. Perché a governo di tutto, delle stelle come dei capelli del capo di ognuno, c’è un Dio che conosce il cuore di ciascuno, e largamente perdona. Di modo che noi dormiamo tranquilli stanotte, vigilia di apocalisse annunciata. Qualunque cosa dicano gli oracoli pagani, per noi è Cristo il vero avvenimento – la roccia, nel ruotare vertiginoso di un ancora sconosciuto universo. Di un mondo che può passare, mentre le parole di Cristo non passeranno. Così che senza aspettare lo scoccare di questa mezzanotte noi sappiamo che cosa veramente aspettiamo, a giorni: un bambino che nasce senza un tetto – un niente, nella logica dei ricchi e dei potenti. Cos’era quel bambino di fronte all’Impero romano e agli eserciti, che cos’era dentro alla storia e al suo maestoso avanzare? E quante fini del mondo nei secoli sono state annunciate. Duemila anni dopo siamo ancora qui, a parlare del bambino di Betlemme – cadute, nel frattempo, mille rivoluzioni, ideologie, potenze. Se non da lui, da chi andremo? La vera attesa è quella del 24 dicembre, lunga notte nel buio del solstizio d’inverno. Notte in cui però, ha detto il Papa ieri, «l’indifesa potenza di un Bambino alla fine vince il rumore delle potenze del mondo». Lontano dal fragore di apocalissi fasulle, noi chini, ancora, su un Dio che nasce nel silenzio.
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