martedì 10 novembre 2020
La lezione americana e le strategie politiche per una nuova stagione di impegno
Per contrastare chi cavalca la paura e il risentimento serve semplificare le proposte e offrire una prospettiva comunitaria alternativa alla politica fondata sull’«io»

Per contrastare chi cavalca la paura e il risentimento serve semplificare le proposte e offrire una prospettiva comunitaria alternativa alla politica fondata sull’«io» - Reuters

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Il populismo è vivo e non basterà il Covid– 19 a cancellarlo. Le elezioni americane erano il primo vero test globale per misurare le ripercussioni della pandemia sulle grandi democrazie occidentali e c’erano tutti gli elementi, alla vigilia, per aspettarsi un cambio di scenario radicale. Ci vorrà tempo per completare la transizione verso la presidenza di Joe Biden, ma l’immagine di una comunità nazionale statunitense divisa in due, con «due Americhe che si conoscono profondamente, non si scelgono e non si piacciono », per parafrasare le parole dello scrittore Adam Gopnik, è destinata a tenere banco e a dare argomenti utili alla propaganda sovranista ancora per un bel po’ di tempo. Nonostante la sconfitta, infatti, Donald Trump ha dimostrato di saper parlare con efficacia alla “pancia” di mezzo Paese e questo peserà anche in futuro. Per questo, la lezione che arriva da oltreoceano serve anche nel Vecchio Continente, dove si dimostrerà di aver capito davvero quel che è accaduto proprio se si saprà non sottovalutare la portata del voto del 3 novembre, innanzitutto evitando di considerare come archiviata la stagione trumpiana.

Gli Usa sono stati pesantemente colpiti dal contagio e l’Amministrazione repubblicana, non è un mistero per nessuno, ha a lungo minimizzato l’impatto del coronavirus sul sistema sanitario prima, e sui trend economici poi. Non solo: la malattia vissuta a ottobre in prima persona dal presidente uscente, che ha sfidato più volte il virus mostrandosi senza mascherina e accorciando i tempi di guarigione infischiandosene di veti e protocolli medici, poteva costituire un “handicap” nella corsa alla riconferma. Eppure non è successo, non del tutto. Anzi, la campagna elettorale nelle ultime battute si è svolta come se nulla fosse, tra adunate di folla e tradizionali proclami pre–voto, e il candidato repubblicano ha confermato il legame magnetico con la sua base. Quali sono i motivi della sorprendente tenuta del fronte populista e cosa ci aspetta nei prossimi mesi?


Dagli Usa si è passati all’Europa, alle grandi manifestazioni negazioniste di questa estate e ancor di più, pensando all’Italia,
ai cortei che esprimono la “rabbia sociale” dei più colpiti dalla pandemia

La prima ragione della “resistenza” sta proprio nella paradossale reazione al virus, soprattutto in questa seconda fase del contagio. Il fronte populista ha dimostrato di saper cavalcare, meglio di altri, sentimenti come la paura, la diffidenza verso l’altro. L’ha fatto negli Stati Uniti, po- trebbe farlo altrove. Dal 2016 a oggi i leader populisti hanno vellicato con abilità le pulsioni del cosiddetto forgotten man, di chi è dimenticato o ai margini, lavorando sull’inconscio di queste persone, sulla loro richiesta di sicurezza e sulla loro voglia di rivalsa. Da questo punto di vista, tale strategia è stata un successo e adesso che la pandemia chiede un prezzo ancora più alto, in termini di restrizioni e soprattutto di ricadute economiche e sociali, risulta ancora più facile solleticare con parole studiate l’ego del risentimento, della protesta anti–sistema, persino del vittimismo di tanti.

I populisti, questo mestiere, lo sanno fare bene perché per primi hanno trovato la chiave per interpretare xenofobie, timori e allarmi sociali. Ora il Covid è un’occasione per parlare d’altro: prima della sicurezza sanitaria, viene quella economica. Anzi, è la tesi di questo schieramento, si vuole distruggere quest’ultima, con il “pretesto” di garantire la salute. Si vede bene, in questo senso, come dagli Usa si sia già passati all’Europa, alle grandi manifestazioni negazioniste di questa estate e ancor di più, pensando all’Italia, ai cortei che esprimono la “rabbia sociale” dei più colpiti dalla pandemia. Sono i nuovi esclusi, i nuovi vinti. A metà di questo decennio, erano i vinti della globalizzazione. Oggi sono i vinti della pandemia e su di essi, sul loro legittimo rancore di emarginati, hanno messo gli occhi i movimenti populisti.

La seconda ragione in grado di spiegare la vitalità, nonostante tutto, dei populismi risiede nella loro capacità di mettere insieme mondi diversi e nel riuscire a essere efficaci almeno agli occhi della “propria” opinione pubblica. La strada tracciata da Trump insegna che la retorica sovranista non ha perso appeal e continua a trascinare con sé pezzi di elettorato. Lo fa dando peso all’immagine dell’«uomo solo al comando» e parlando per ciò stesso in prima persona singolare. I fenomeni di personalizzazione della politica, in corso da oltre un ventennio, sono diventati nella prospettiva populista l’affermazione dell’«io», con i suoi bisogni e le sue richieste, la sua visione del mondo e la necessità di vederla riflessa nel discorso pubblico. Una volta si sarebbe detto: «Quel politico è un esempio, traccia una strada». Ora si dice: «Quel politico parla come me, dice le stesse cose che dico io». È in corso, dunque, un processo di identificazione, che annulla le distanze e permette a chi intercetta queste onde emotive di annettersi determinati strati sociali. Logica conseguenza di tutto questo è il linguaggio populista, fatto di pochi concetti semplici e minima elaborazione politica. È banale, autoassolutorio, del tutto politically incorrect (infatti è detestato dagli oppositori) ma in un certo senso funziona. Ecco un altro aspetto fondamentale: la funzionalità delle proposte avanzate. Il cittadino può dire: «Mi fa comodo votarlo, anche se non mi piace». È sempre più così e a ciò si accompagna anche un’altra frase simbolo, che spiega le difficoltà dei sondaggisti nel fotografare gli umori dell’elettorato: «Non lo dico, ma lo voto».


Quali sono i motivi della sorprendente tenuta del fronte populista? La prima ragione sta nella paradossale reazione al virus

Fin qui, la strada appare in discesa. In realtà, per i populisti di tutto il mondo con l’avvio della nuova fase, iniziano anche diversi nuovi problemi. La stessa ricetta coniata da politologi e spin doctor per sintetizzare la strategia, poi rivelatasi vincente, di Biden dice perché: « Less is more ». Meno è meglio, è di più. Nel momento in cui i populismi alzano la posta, chi si oppone deve andare in direzione opposta: agire per sottrazione, si direbbe. Togliere argomenti alla propaganda, ridurre all’essenziale le proposte (poche ma chiare) non seguire sul suo terreno chi è più bravo di te nell’arruffare pensieri ed emozioni.

Si dirà: ma così si rinuncia alla visione ideale, al fascino della rivoluzione, alla capacità d’innovazione. No, è il contrario. Proprio in questo tempo, in cui il dna del populismo rischia di uscire geneticamente modificato dalla pandemia, prendendo direzioni radicaleggianti e sfumando i suoi aspetti più morbidi, com’è accaduto in America con Trump, chi è alternativo se vuole anche essere maggioritario deve tornare a parlare all’opposto: « We, the people » (“Noi, il popolo”, incipit del preambolo della Costituzione americana) ha ripetuto più volte il presidente eletto nelle notti insonni dello spoglio elettorale. “Noi”, prima persona plurale, contro “io”, prima persona singolare. La sfida 2.0 per battere i popu-listi deve partire da qui.



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