giovedì 21 maggio 2015
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​L’arresto vicino a Milano di un marocchino di 22 anni, accusato di aver preso parte alla strage di Tunisi all’interno del Museo del Bardo, in cui morirono 24 persone tra cui quattro turisti italiani, è un allarme che ci percuote. Ci fa paura d’aver scoperto un’insidia dentro casa nostra, prima che ci dia sollievo l’aver fermato presto un ragazzo che le autorità tunisine ricercano come un terrorista assassino. Di Abdel Majid Touil, questo il suo nome, non sappiamo nulla di più, se non che sbarcò a metà febbraio a Porto Empedocle insieme ad altre 90 persone da un barcone di immigrati, venne identificato ed espulso. Ora è stato arrestato presso la casa dove vivono sua madre e due suoi fratelli, da anni regolarmente residenti in Italia. Che cosa abbia fatto da quel suo primo sbarco in poi, se sia andato a Tunisi a fare la strage per poi rientrare qui da fuggiasco, o se non abbia mai lasciato l’Italia come dicono alcuni testimoni, è il primo tremendo quesito. Resta così sullo sfondo, tra le scarne notizie di un’operazione di intelligence, la possibilità di una falsa pista sopra un innocente. O forse la traccia di un coinvolgimento d’altra natura che non la presenza e la partecipazione fisica. O chissà.A noi preme, nel vaglio delle ipotesi, renderci ragione delle emozioni che in alcuni di noi produce la sequenza peggiore immaginata: un barcone di disperati, un terrorista intrufolato dentro in incognito, il foglio di intimazione di andarsene, la perdita delle tracce, la strage di Tunisi un mese dopo, il rientro in Italia chissà come e chissà per dove, l’arresto in Italia con quelle accuse spaventose delle autorità tunisine. La conclusione delle congetture fatte certezze a priori è lo sfogo della paura contro quel barcone, come veicolo infetto, come tramite dell’infiltrazione terrorista. Sicché l’avversione si va a scaricare verso l’intero e indistinto carico umano di quelle carrette del mare, e di tutta  l’impropria e disperata flottiglia che trascina sulle onde, a filo di morte rischiata, la fuga dalla morte di guerra o di stento. Diventa possibile allora che qualcuno dica, se non proprio che i migranti sono terroristi, che la migrazione introduce comunque il terrorismo, e che la soluzione è semplicemente quella di «chiudere la frontiere». È un pensiero fallace, e in certo modo pervertito, cioè soccombente al ricatto terrorista. Nel mondo globalizzato il terrorismo non ha più frontiere ed è un nemico comune, contro il quale il mondo non può che fare fronte comune, per difendersi, prevenire, reprimere. Ma non schiacciando la massa dei deboli come fosse un indifferente contorno umano sacrificabile. Pensare di far pagare ai migranti e ai profughi il conto di una potenziale presenza occulta sulle "zattere della medusa" che tentano il mare è insensato e confesserebbe a priori l’impotenza dell’intelligence.Il terrorismo organizzato, nel mondo, ha ben altre risorse; ha anche altre strategie seduttive, accende i suoi focolai e le sue tane di "lupi solitari" anche fra gente del luogo. A volte si trovano in luoghi stranieri gli accusati di stragi lontane: gli arrestati dalla Digos di Sassari a fine aprile, per esempio, sono accusati di stragi crudeli e attentati in Pakistan. Nel mondo interconnesso, cablato, fatto rete senza fine, la lotta al terrorismo non può che essere a sua volta una cooperazione reticolare, vigile, concorde, coordinata. Noi abbiamo varato in aprile una legge (numero 43) forte e severa, contro il terrorismo. Ma non potremo mai rassegnarci a mutilare la nostra civiltà dei suoi valori, rintanandoci nel terrore che rinnega la società aperta e accogliente, nella collaborazione più stretta tra i paesi che condividono gli stessi ideali di democrazia, di convivenza e di tolleranza (è il pensiero espresso di recente anche dal presidente Mattarella). Non possiamo associare la minaccia terrorista al rifiuto di soccorrere i disperati del mondo: faremmo piombare loro addosso una nuova sventura cui sarebbe appropriato dare il nome di strage, ancorché silenziosa.
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