lunedì 12 settembre 2011
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Gentile direttore, la guerra di Libia volge, forse, al termine. I ribelli stanno prendendo il sopravvento. E proclamano il diritto a uccidere. Nel silenzio generale. I Paesi occidentali, i liberatori, accettano che le vendette siano regolari, che i lealisti aiutati da mercenari meritino la morte. I ribelli non hanno mercenari. Per loro da "mercenaria" ha agito la Nato, scatenando la guerra. Il petrolio è la loro mercede. Per Sarkozy in testa, poi per gli inglesi. Ma anche gli italiani hanno finito per usare bombe "umanitarie", sperando di non venir esclusi dal bottino. Nessuno in Italia osa alzare la voce contro una carneficina che ha fatto e fa infinitamente più vittime di quante se ne ebbero nei naufragi dei profughi verso Lampedusa. Perché nessuno parla? Perché i pacifisti nostrani tacciono? Perché la Chiesa non alza la voce? Perché Avvenire non denuncia in prima pagina queste stragi? La guerra umanitaria è stata approvata anche dal presidente Napolitano (che a suo tempo approvò l’intervento russo a Budapest e quello del Patto di Varsavia a Praga). Il vescovo di Tripoli Martinelli ha parlato invano e con forza dei "pretesti" usati dalla Nato per intervenire. Perché la Chiesa non gli dà retta? Perché la persecuzione razziale dei neri in Libia non desta preoccupazioni di sorta? I nostri telegiornali mostrano solo i ribelli che sparano in aria e avanzano conquistando quello che la Nato loro permette.
G. Musso, Savona
Nessuna guerra è buona, caro signor Musso. Ma non tutte le guerre sono uguali. E la guerra di Libia è certamente e purtroppo una guerra senza "buoni". Non è buono Gheddafi, non sono buoni i suoi avversari e nuovi (quasi) padroni del Paese nordafricano e delle sue ricchezze naturali. Non si possono considerare buoni – a conti fatti, a interessi in campo ben valutati – neanche tutti gli intendimenti delle potenze coinvolte, quelle belligeranti (europei e americani in testa) e quelle spettatrici (Cina, Russia e la gran parte dei Paesi arabi e africani). Ma, altrettanto certamente, un bene da promuovere c’è: quello del popolo libico che – come abbiamo spiegato più volte nelle nostre cronache e in un bell’editoriale di Marco Impagliazzo (del 24 agosto scorso) – non è un monolite, ma un popolo complesso che abita una nazione plurale. Per questo popolo, martirizzato dal suo stesso capo, si è mosso il mondo, cioè in pratica la Nato con l’approvazione delle Nazioni Unite. E noi, pur allarmati come ogni volta che a prendere la parola sono le armi, abbiamo sperato. Poi, le cose sono andate come sappiamo, e la guerra di difesa della popolazione civile libica si è fatta guerra per un cambiamento di regime in Libia. E non abbiamo mancato di farci sentire, facendo eco alla voce del Papa che ha a più riprese invocato la fine delle ostilità e una soluzione negoziale e diplomatica. Altri si sono fatti sentire, anche se è verissimo che stavolta nessuna grande mobilitazione "pacifista" s’è vista. E io penso che su questo atteggiamento abbia potentemente influito l’impegno filo-bellico di tanta parte della sinistra italiana (nonché il fatto che Gheddafi fosse diventato negli ultimi anni una sorta di ingombrante e imbarazzante "amico" dell’attuale premier, Silvio Berlusconi). Una cosa però – e qui ripeto un concetto che abbiamo espresso molte volte – dobbiamo tenere a mente: senza l’intervento Nato, in Libia non ci sarebbe stata la pace, ma ancora guerra. Una guerra sporca e feroce. Come feroci e sporche sono tutte le guerre civili. Come feroce e sporco è stato da parte di Gheddafi il cinico tentativo di usare – dramma nel dramma – gruppi di migranti provenienti dalla cosiddetta Africa nera come «missili umani» contro Lampedusa. Le sofferenze di coloro che per questo sono morti nella traversata del Canale di Sicilia gravano su scafisti e mancati soccorritori (là dove il soccorso sarebbe stato possibile), ma prima di tutto sul rais libico. Non dimentichiamolo mai. Un’ultima annotazione: quando ad Avvenire abbiamo avuto la certezza che il nostro inviato Claudio Monici e gli altri giornalisti italiani sequestrati dai gheddafiani erano salvi e di nuovo liberi, ho ricordato in prima pagina – rivolgendo il pensiero alle vittime del conflitto e, per primo, all’autista-guida libico al-Maadi – che la guerra, ogni guerra, «non consente mai di liberare sorrisi pieni; e solo quando ha vera fine offre sollievo vero». Questo continuo a pensare. E oggi, 11 settembre 2011, a dieci anni dalla strage delle Due Torri, anello chiave di una lunga catena di terrore e di orrore bellico, ne sono più convinto che mai.
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