Nelle mani del padre
venerdì 12 novembre 2021

Si ripropongono costantemente ipotesi di situazioni patologiche, tecnicamente non terminali, a carico di pazienti di ogni fascia di età (ma naturalmente i casi più patetici sono quelli che coinvolgono minori e/o neonati), che li fanno sprofondare in stati vegetativi dalla durata non prevedibile facendo perdere loro le normali capacità relazionali, soprattutto con il contesto familiare e amicale. Come gestire situazioni così tragiche?

Una soluzione corretta ed equilibrata è sembrata, all’inizio, quella di avvalorare legalmente le cosiddette Dat, cioè le dichiarazioni anticipate di trattamento, che possono portare alla sospensione delle cure di sostegno vitale. Fino a quando, però, non ci si è resi conto che soltanto una piccola minoranza di cittadini ama sottoscrivere documenti così delicati oltre che di un’oggettiva complessità. Anche la scelta di affidare ai Comitati etici decisioni di vita e di morte sembra perdere continuamente di forza, e così prendono piede altre e diverse forme di appello, come quelle all’autorità giudiziaria.

E i giudici sembrano a loro volta sempre più smarriti difronte a situazioni casistiche sovente non solo nuove, ma anche dottrinalmente fastidiosamente intricate: dico 'fastidiosamente' non perché non meritino rispetto, ma perché il rispetto che esse meritano richiede dai medici e dai bioeticisti che se ne occupano competenze sottili, che non sembrano essere, obiettivamente, alla portata di tutti.

Il caso della trentenne Samantha D’Incà, emerso nelle ultime settimane, è esemplare: bloccata a letto per un’infezione contratta dopo un’operazione in ospedale, Samantha non ha lasciato dichiarazioni scritte, in previsione di eventi così tragici che avrebbero potuto colpirla, ma avrebbe più volte dichiarato ai familiari il suo deciso rifiuto a qualsiasi accanimento medico. È facile immaginare le divisioni e le controversie che si sono accese nel contesto religioso cui appartiene la famiglia di Samantha e ancor più in quello ospedaliero (peraltro prestigioso) nel quale la ragazza è stata accolta e ancor più le lacerazioni emotive, psicologiche, familiari che sono state attivate da questo 'caso'. Ma la situazione è divenuta ancora più incandescente quando, come per molti era inevitabile che accadesse, il caso è stato portato in un’aula giudiziaria.

I magistrati hanno utilizzato, come criterio ultimo per risolvere la terribile questione, quello dell’attribuzione al padre della potestà decisionale in merito al proseguimento (o no) delle terapie di sopravvivenza vitale a favore di Samantha (come, per esempio, la ventilazione forzata). Questo criterio, dotato indubbiamente di una sua ragionevolezza, anzi di una sua forza, va inevitabilmente riconnesso all’idea che la tutela e la protezione della vita umana vadano alla fin fine riportate sotto l’ombrello di un 'potere' e in particolare di quel potere genitoriale che per secoli ha tolto alle generazioni più giovani la loro autonomia e soprattutto la loro dignità, collocando i figli nella più totale e spesso arbitraria disponibilità dei genitori.

Ciò che si può dedurre da questa vicenda è che la questione dell’eutanasia, in molti casi, come in quello di Samantha, non dovrebbe essere riportata al superamento delle sofferenze dei malati terminali, spesso trattabili con efficacia attraverso raffinate tecniche palliative, ma a quella della dignità della fragilità assoluta (condizione che non è propria solo della vita morente), che non dovrebbe in nessun caso essere fatta gestire (per dir così) soltanto da singoli contesti familiari, sociali o spirituali.

L’alleanza tra affetti, scienza e coscienza, anche qui, resta concetto e pratica essenziale. Non perché soffrono il disabile gravissimo o il malato terminale hanno una dignità, ma in quanto persone e perché solo attraverso la loro condizione noi siamo in grado di percepire quella sottile linea di confine che separa immanenza e trascendenza: cioè, da una parte, vita biologica e, dall’altra, quella misteriosa dimensione dell’esistenza che carica la vita biologica di senso. Al padre di Samantha spetta ora la decisione più tagliente che possa spettare a un padre, quella di individuare nel corpo della figlia trentenne questa dimensione di senso, che non può ridursi alle sole lacrime. Che Dio l’aiuti a prendere una decisione di cui non debba mai pentirsi.

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