martedì 27 aprile 2010
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Da tempo il triangolo uomo-ambiente-tecnologia emette sinistri scricchiolii. La complessità crescente dei nostri sistemi industriali, le imponenti quantità di energia in gioco, la tendenza al risparmio nei sistemi di sicurezza, l’aumento del traffico, il proliferare di fabbriche, impianti e mezzi di trasporto comportano un aumento costante del rischio di incidenti. La locuzione "società del rischio" è quanto mai idonea a descrivere la situazione rispetto non ai rischi naturali, che sono sempre esistiti, quanto ai pericoli derivanti dalla produzione industriale, che negli ultimi tempi sono cresciuti a dismisura.Ogni giorno giunge notizia di qualche incidente più o meno grave, che nei casi peggiori porta i media a parlare di "catastrofe ambientale": è uno stillicidio di colpi assestati alla natura, nessuno dei quali è mortale, ma che nel loro insieme costituiscono un lento assassinio dell’ecosistema. E l’ecosistema, ovviamente, comprende anche noi. Ma la ripetizione degli episodi ci rende insensibili: ci si abitua a tutto e i gridi di allarme cadono in una sorta di rassegnata indifferenza. Ora è la volta della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon (che nomi poetici hanno sempre questi impianti), che per un guasto è affondata e sta disperdendo circa 160mila litri di greggio al giorno nel Golfo del Messico. La chiazza minaccia le coste della Louisiana, che ha già ha patito danni terribili nel 2005 per l’uragano Katrina.Al di là dell’episodio, pur gravissimo, s’impongono alcune considerazioni generali. In primo luogo, la complessità della nostra tecnologia ha raggiunto livelli tali per cui gli incidenti sono di fatto inevitabili. Per rendere (quasi) del tutto sicuri gli impianti bisognerebbe investire somme tali che nessun ente pubblico o azienda privata ne accetterebbe l’onere. Di conseguenza, in sicurezza si investe poco e quindi, oltre che complessa, la tecnologia è fragile. Per non parlare della negligenza umana. Pare che nel caso della Deepwater Horizon l’incidente sia stato provocato dall’avaria di un tubo di trivellazione: se le piattaforme sono poche, un incidente del genere è poco probabile, ma se sono migliaia (come sono) la probabilità aumenta in proporzione e diventa quasi certezza. Tante e tali sono le cause di malfunzionamento in un sistema complesso che si può ben parlare in termini statistici: il caso la fa da padrone e spesso è difficile, se non impossibile, trovare "il" responsabile. Ciò non toglie, ovviamente, che sia doveroso alzare la guardia e imporre misure di sicurezza crescenti.Un’ultima osservazione riguarda il concetto di "simbiosi", che si applica a piante e animali che vivano a stretto contatto con beneficio reciproco. Per estensione, si può parlare di simbiosi anche tra l’uomo e le sue macchine, i suoi sistemi e i suoi impianti. È evidente che da questa unione l’uomo trae beneficio ma, adottando una visione vagamente animistica, anche le macchine ne ricavano vantaggi. Ad esempio, nel caso dell’automobile non si può negare che il moltiplicarsi di tipi, modelli e fogge sia un indice di "benessere". Ma, come nel caso biologico, la simbiosi si può trasformare in cannibalismo: oggi l’auto ci sta cannibalizzando, non solo per i problemi legati al traffico, ma per la frenetica ricerca del petrolio, che conduce a guerre devastanti e, appunto, a incidenti come quelli del Golfo del Messico.
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