Mamma e figlio ospiti della casa per detenute madri dell'associazione "Ciao"
Un progetto di accoglienza alternativo al carcere permette di scontare la pena in un ambiente familiare «È stata dura, molto dura. Il carcere mi ha temprato, mi ha costretto a fare i conti con i miei errori e con il dolore che avevo provocato. Prima che a me stessa, ai miei figli, vittime innocenti. Tra le mie quattro figlie, lei è quella che sta pagando il prezzo più alto». “Lei” è Veronica, una pulce di quattro anni con due occhi luminosi che contemplano quelli di mamma Angelina. Nella sala giochi ci sono altri tre bambini, ospiti insieme alla madri di una casa famiglia protetta per donne detenute al quartiere Stadera di Milano. Si chiama Ciao, è la prima fondata quindici anni fa in Italia alla quale se ne è aggiunta una analoga a Roma. Tre alloggi per l’autonomia che possono ospitare sei donne e sette bambini, una sala di condivisione, la ludoteca e un lungo corridoio all’ultimo piano di un edificio messo a disposizione dalla parrocchia dei Quattro Evangelisti. Un’esperienza di alternativa alla detenzione in carcere nella quale si continua a scontare la pena, si costruiscono ponti con la società in vista di un reinserimento pieno, si offre ai bambini un ambiente adeguato alla crescita e al consolidamento di legami affettivi, e alla madre detenuta la possibilità di coltivare la propria maternità e acquisire la capacità di gestire una relazione equilibrata con il figlio.
Prima di approdare qui, Angelina è passata dal carcere di Como e dall’Icam di San Vittore a Milano, l’Istituto a custodia attenuata per detenute madri (in Italia ce ne sono cinque). « Lì è certamente meglio che in prigione, ma Veronica aveva compreso molto bene la situazione: capitava che alla sera metteva in un sacchetto un pannolino, una bottiglia di latte e un giocattolo, prendeva per mano un altro bimbo e gli diceva “vieni a casa mia”, poi chiedeva all’assistente di aprire il blindo. Non ci voleva stare lì dentro, come è naturale che sia…». E lei, mamma Angelina, come trovava le parole per dire la verità alla figlia? «Come può farlo una madre: “Mamma ha fatto la monella, per questo deve stare in punizione...”. Poi provavo a distrarla con un gioco e lei non ci pensava più. Ma quei giorni l’hanno segnata per sempre». Ora che da tre anni sono ospiti di Ciao le cose sono molto cambiate, vivono in un ambiente formato famiglia, con relazioni significative in comunità, a scuola, nel quartiere. «Qui incontro operatori che hanno creduto in me, non mi hanno giudicato e sono diventati compagni di strada. Con loro ho imparato a togliermi la maschera, a comunicare emozioni che per tanto tempo avevo represso nella convinzione di essere una donna sbagliata. E sono nate anche amicizie con le altre donne: la sofferenza unisce, ci fa sentire bisognose dell’altro». Angelina lavora in una mensa scolastica, periodicamente insieme a Veronica va a trovare il marito in carcere «perché lei non vede l’ora di passare qualche ora con il suo papà, lo riempie di baci e gli chiede “quando torni?”».
Educatori, psicologi, psicoterapisti e gli altri operatori di Ciao, in rete con i servizi pubblici, lavorano per favorire in ogni modo il diritto del bambino di crescere con la madre in maniera equilibrata. Alla frequenza scolastica si accompagnano laboratori di psicomotricità, arteterapia, gite, vacanze, momenti di festa, tutto ciò che può contribuire a farli sentire in una casa. Perché l’obiettivo fondamentale è che non ci siano più bambini in carcere: di cosa potrebbero essere dichiarati colpevoli? « Mamma sempre e ovunque» è il nome del progetto messo a punto in questi anni, raccogliendo la sollecitazione delle istituzioni penitenziarie a ospitare in luoghi diversi dal carcere le mamme detenute con i loro bambini, come auspicato dalla legge 62 del 2011 che stabilisce un principio meritorio senza però prevedere capitoli di spesa per realizzare lo scopo. In questi anni il sostegno economico è arrivato da campagne di raccolta fondi, donazioni private, convenzioni con il Comune di Milano e finanziamenti della Regione Lombardia figli di un emendamento alla legge di bilancio. Ma si è ancora lontani dal mettere a sistema un aspetto vitale per la continuazione di un’esperienza che cerca di attuare la funzione rieducativa dell’esecuzione penale, come viene enunciata dalla Costituzione.
«Non ci sono certezze economiche per il futuro, ma noi insieme agli operatori siamo certi di essere nel posto giusto e andiamo avanti», chiosa la presidente Elisabetta Fontana, pedagogista, uno sguardo che sprigiona passione per la vita. La madre è stata tra le fondatrici di Ciao, un acronimo che sta per «camminare insieme con amore verso Opera» perché l’origine di questa storia è nell’amicizia che univa un manipolo di volontari che frequentavano la Casa di reclusione alle porte di Milano. Lei fin da piccola ha respirato in famiglia il profumo della carità, ha alle spalle due anni di lavoro in Kosovo con la Caritas, il marito Andrea Tollis è il direttore di Ciao, i due figli qui sono di casa, amici e beniamini dei piccoli ospiti: una vocazione formato famiglia, un’esperienza totalizzante che richiede il sacrificio di essere sempre a disposizione ma restituisce la gioia di vedere esistenze trasformate e rilanciate. Elisabetta si definisce una donna “abbracciosa”: « Mi sento un po’ la mamma di queste mamme e dei loro figli, mi piace abbracciarle e loro mi chiedono abbracci. Accoglienza e condivisione sono le nostre parole d’ordine, qui la fragilità è all’ordine del giorno, ma in fondo non è un po’ così nella vita di tutti? Quando qualcuna va in crisi, la porto a leggere insieme a me il cartello che abbiamo messo in corridoio: “In questa casa siamo reali, a volte sbagliamo, ci divertiamo, diamo seconde possibilità. Chiediamo scusa, ci abbracciamo, siamo vitali, perdoniamo. Siamo una famiglia”».
Carmen si è lasciata alle spalle dieci anni di carcere, nel 2015 venne accolta a Ciao insieme al figlio di tre anni con una misura di affidamento ai servizi sociali, poi è andata in Campania con il compagno dell’epoca per ricostruire una vita nuova ma la realtà non ha rispecchiato le sue aspettative. Accolta nuovamente in comunità, oggi vive in un appartamento esterno alla casa famiglia protetta dove segue un percorso finalizzato all’autonomia. « La galera mi ha costretto a riflettere, mi ha fatto diventare una donna più forte, fino alla decisione di dare un taglio netto con il passato. Abitavo in un campo rom, facevo furti per vivere, mi sono resa conto di quanto fosse sbagliato prendere le cose degli altri e che non potevo rimanere schiava delle leggi del clan. Venire qui ha significato decidere per un cambiamento radicale, con l’aiuto degli operatori ho cominciato una strada nuova: mi sono messa in regola con i documenti, ho trovato un lavoro in un’impresa di pulizie, i miei due figli minori vanno a scuola e desiderano un futuro pulito. Ho chiesto il battesimo cattolico scegliendo due educatrici come madrine, era un modo per stringere un legame ancora più forte con le persone incontrate in questo posto. Quando hai bisogno, loro ci sono sempre. Ti aiutano a sperare».
Cosa direbbe a una mamma che si trovasse nella condizione in cui viveva dieci anni fa? « Le direi di non essere succube di altre persone che le impongono quello che deve fare. Di ascoltare la voce del cuore, e di trovare il coraggio di staccarsi dalla vita cattiva. Per il suo bene, per quello dei suoli figli. Cosa mi ha salvato? Avere incontrato persone che vogliono il mio bene».
(4 - continua)