venerdì 23 dicembre 2022
In due anni quasi 800mila vittime e 2,5 milioni di sfollati, ma nonostante il cessate il fuoco firmato a inizio novembre i massacri e le violenze non si fermano. Le iniziative per cercare la pace
Il campo profughi di Um Rakuba nella regione etiope del Tigrai, lo stesso che negli anni Ottanta aveva ospitato le vittime della carestia

Il campo profughi di Um Rakuba nella regione etiope del Tigrai, lo stesso che negli anni Ottanta aveva ospitato le vittime della carestia - Ansa

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La più grande tragedia umanitaria di questo tempo è stata ignorata dal mondo per il «colore della pelle della gente». Lo scorso agosto il direttore dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, tigrino ed ex ministro etiope della Sanità, non aveva usato giri di parole per indicare la ragione principale dell’indifferenza globale verso la guerra civile scoppiata nel novembre 2020 tra le autorità regionali tigrine e il governo centrale etiope del premier Abiy Ahmed. Già in aprile Tedros aveva chiesto «uguale attenzione alle vite dei bianchi e dei neri», rilevando che le crisi in Etiopia, Yemen, Afghanistan e Siria avevano generato solo una «frazione» dell’attenzione della guerra in Ucraina. Parole che hanno suscitato polemiche, ma purtroppo non hanno accresciuto l’interesse per il conflitto in nord Etiopia.

Ora, almeno a Natale, ricordiamoci del Tigrai perché il dramma continua. È l’appello disperato di quanti seguono la crisi nella regione del nord Etiopia, apparentemente risolta dopo la firma del cessate il fuoco lo scorso 2 novembre a Pretoria, dopo due anni di conflitto spietato, sanguinoso e soprattutto dimenticato. Ma massacri, stupri e saccheggi soprattutto nelle aree rurali continuano nell’ombra che avvolge l’area. E in queste ore a Nairobi le autorità regionali e federali stanno cercando di implementare l’accordo sudafricano. È in gioco in queste settimane la vita di milioni di persone colpite dalla guerra e dalle conseguenze del blocco di molti mesi imposto da Addis Abeba, che allo scoppio del conflitto ha chiuso i confini, sospeso l’erogazione di energia elettrica e impedito l’accesso a organizzazioni umanitarie e media. Un blackout non ancora terminato le cui conseguenze sono state ribadite il 14 dicembre dall’Alto commissario Ue per gli Affari esteri Joseph Borrell: «Giustamente condanniamo quello che sta accadendo in Ucraina, ma quanto sta succedendo in Etiopia è terribile. Le cifre dicono che sono state uccise tra le 600 e le 800mila persone. E la maggior parte di loro è morta per la carestia, non in combattimento, ma per il taglio degli aiuti umanitari, dell’elettricità e di ogni tipo di servizio pubblico per mesi».

«È possibile che siano morte più persone in Tigrai che in Ucraina», gli ha fatto eco il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. Almeno 2,5 milioni di tigrini sono sfollati e bisognosi di aiuti umanitari, che riescono oggi a raggiungere il capoluogo tigrino Macallè, ma non sono ancora stati distribuiti per ragioni di sicurezza e perché gli aeroporti tigrini sono stati seriamente bombardati. Oltre all’emergenza umanitaria di milioni di sfollati, delle decine di migliaia di bambini colpiti da malnutrizione e malati senza cure, un cumulo di crimini di guerra pesa come un macigno sulla pace. L’Onu si è impegnata a indagare con una commissione indipendente per scovare i responsabili dei massacri di civili, degli stupri etnici di massa e della distruzione sistematica di ospedali e scuole, da un lato tra le truppe federali, i loro alleati eritrei che hanno occupato il Tigrai dall’inizio della guerra civile, le milizie regionali amhara, e dall’altro tra le stesse forze di difesa tigrine. Ma non ha accesso a tutte le aree della regione dove imperversano bande armate amhara e gli eritrei. Senza contare l’uso indiscriminato fatto da Addis Abeba dei droni armati di fabbricazione turca e iraniana, per comperare i quali il governo federale si è pesantemente indebitato.

«Mi vergogno profondamente per l’indifferenza occidentale verso la tragedia del Tigrai. L’unica voce che ne ha parlato invocando la pace è stata quella di papa Francesco». Il professor Aldo Morrone è noto come medico degli ultimi in Italia e in Africa. Ha 68 anni, da oltre 30 si dedica a curare i deboli e i bisognosi. Infettivologo di fama mondiale, direttore scientifico dell’Istituto San Gallicano di Roma, è partito più volte per l’Etiopia per costruire con altri colleghi alcuni snodi del sistema sanitario etiope, in particolare in Tigrai, formando medici locali.

«Sono stato la prima volta nella regione a metà anni Ottanta, durante la guerra di liberazione del partito tigrino Tplf contro la giunta militare del Derg. Dopo l’arrivo al governo nazionale del Tplf abbiamo aiutato a costruire ospedali come quello di Adua e l’Ayder di Macallè. Durante la guerra tra Etiopia ed Eritrea del 1998-2000 abbiamo contribuito alla riabilitazione dei feriti e degli invalidi. In questi anni erano stati fatti passi avanti nella sanità. In ospedali come l’Ayder, diventato clinica universitaria, si potevamo curare malattie oncologiche e il diabete, c’erano strumentazioni di prim’ordine, si vaccinava. Il Covid ha dato il primo colpo, poi la guerra civile ha portato morte distruzione e la guerra in Ucraina li ha fatti dimenticare. Ora sono tornati indietro di 30 anni».

Morrone, come ha già fatto alla trasmissione di Radio Radicale Africa Oggi, rilancia l’emergenza umanitaria. «I colleghi tigrini mi hanno confermato la distruzione e il saccheggio di molte strutture sanitarie. Non esiste una contabilità dei morti almeno finché non ci sarà libero accesso alla regione, ma questo, unito al blocco di farmaci e aiuti, ha impedito la cura di diverse malattie mentre la mancanza di cibo ha aumentato la malnutrizione. Inoltre non è stato possibile curare migliaia di donne stuprate. Faccio appello ai governi dell’Ue e al nostro: salviamo il Tigrai ricostruendo gli ospedali e le infrastrutture. Deve tornare la pace in tutta l’Etiopia e nel Corno d’Africa colpito da una terribile siccità». Ma quali siano gli ostacoli lo spiegano i tigrini del Nord Italia che lo scorso febbraio hanno dato vita a una associazione di promozione sociale. La rappresentante non vuole, però, rivelare il proprio nome perché teme ritorsioni sui parenti.

«Le truppe eritree non si sono ritirare dal territorio come dovevano in base agli accordi e spadroneggiano. Controllano le linee telefoniche, vedono chi riceve chiamate dall’estero e vanno a cercarlo. La situazione soprattutto attorno ad Adua e nel centro del Tigrai non è cambiata. I nostri parenti testimoniano che gli eritrei continuano a uccidere, stuprare e saccheggiare. Mancano cibo e medicine, i raccolti sono stati bruciati per cattiveria, il bestiame razziato. E i servizi bancari sono stati parzialmente riattivati e quindi non possiamo inviare denaro. E poi non c’è nulla da comprare». Continuano anche le denunce di massacri. «L’ultimo – prosegue la rappresentante tigrina - è avvenuto a fine novembre nelle campagne di Mariam Shewito, a 12 km da Adua, dove sarebbero stati uccisi dalle truppe eritree 3mila civili. Altri 78 sono stati assassinati ad Adiabo e 85 nella provincia di Irob. Le truppe federali non intervengono. Eppure la gente non vuole vendetta, chiede solo pace». L’associazione sta raccogliendo aiuti e ha chiesto al comune di Milano una sede a costi accessibili. «In due anni siamo stati per molti tigrini in Nord Italia un punto di incontro e sostegno psicologico. Molti non avevano notizie dei propri familiari da mesi. Vogliamo aiutare concretamente la nostra gente a rialzarsi».

Il ritiro dal Tigrai delle truppe del dittatore eritreo Isayas Afewerki è stato più volte chiesto da Usa e Europa. Le truppe di difesa tigrine consegneranno tutte le armi, come previsto dall’accordo di pace, solo quando i militari di Asmara torneranno oltre il confine. Finora il premier Abiy Ahmed, discusso Nobel per la pace del 2019, non si è pronunciato e la tregua resta fragile. Intanto, la diocesi martire di Adigrat, nel cuore del Tigrai, ha avviato un progetto di collaborazione con la fondazione d’un altro Nobel per la pace molto meno discusso. Si tratta di Denis Mukwege, il ginecologo congolese che cura le donne stuprate nei conflitti. Sarebbero 120.000 le tigrine vittime di violenze di gruppo in 24 mesi e si ritiene che sia solo la punta dell’iceberg. Il segretariato della diocesi di Adigrat, il cui vescovo Tesfaselassie Medhin ha più volte cercato di bucare il muro del silenzio con toccanti lettere alla rete internazionale della carità cattolica, si era appellato al ginecologo perché la sua fondazione offre cure mediche con metodi olistici, assistenza psicologica e socioeconomica mentre la diocesi dispone di una rete di cura ampia che include il secondo ospedale della regione. I l progetto Selaam, come è stato chiamato, vuole essere un modello per le altre regioni dell’Etiopia dilaniata dai conflitti etnici, dove spesso gli stupri sono arma di guerra. Il vescovo e la combattiva suor Medhin, in prima linea con le vittime, avevano mandato un appello al Papa e a Mukwege in agosto, ma lo scoppio dell’ultima fase delle ostilità aveva bloccato tutto. La Segreteria di Stato vaticana segue con attenzione gli sviluppi della situazione. La pace si costruisce anche curando le ferite degli innocenti, ma soprattutto tenendo accesa la luce sulla tragedia del Tigrai.

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