sabato 12 dicembre 2020
L’effetto delle innovazioni e le nostre capacità di adattamento: il tempo corre, ma la biologia ha un passo diverso. La plasticità del cervello rischia di mettere le persone ai margini
"Medusa", opera di Doriano Solinas

"Medusa", opera di Doriano Solinas - Archivio Avvenire

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Il tempo si è messo a correre ed è difficile stargli dietro e quasi impossibile raggiungerlo. Ci sono corridori veloci che lo inseguono e altri meno veloci; i più giovani tentano almeno di non perderlo di vista mentre i più anziani hanno il fiatone e si devono arrendere e tornano a casa per riposarsi. Il tempo fugge via e forse nella storia non è mai stato così veloce. Il tempo a cui alludo è quello in cui viviamo, e il carro che lo guida è quello della tecnologia più avanzata che ha per motore l’intelligenza artificiale e per autista un algoritmo esperto, chiamato in gergo, machine learning; non ha ruote ma robot che lo sollevano e lo fanno volare.

Ogni giorno il carro cambia i suoi algoritmi per andare ancora più veloce e gli inseguitori si affannano e ormai la loro vita è dominata dall’inseguimento; sembrano affetti da una paranoia inguaribile tanto che alcuni conservatori pensano che forse hanno bisogno di uno strizzacervelli. Fuori di metafora, è esperienza tanto facile quanto inquietante che la tecnologia e suoi fantastici prodotti abbiano uno sviluppo così accelerato da causare, e sempre più in futuro, la necessità di un faticoso e costante aggiornamento sull’uso dei suoi strumenti.

Il tempo in cui viviamo, con queste nuove e meravigliose innovazioni, significa per gli inseguitori lavoro, occupazione, sopravvivenza. I più giovani con i muscoli tonici e ben allenati non hanno grossi problemi, ma per gli altri vi sono difficoltà più o meno preoccupanti in dipendenza dell’età, in quanto è per loro difficile un continuo aggiornamento sullo sviluppo rapido della tecnologia e di conseguenza sulla capacità di svolgere il lavoro richiesto; diventano in breve tempo poco o per niente produttivi e devono essere spostati a lavori di servizio e quando è possibile, allontanati dal lavoro. Il correr del tempo causa senza pietà una precoce vecchiaia e il precoce vecchio ne soffre dal punto di vista sociologico con risvolti che spesso compromettono il suo stato di salute.


L’offerta per i lavori più prestigiosi si rivolgerà soprattutto
ai giovani. Non per posti a tempo indeterminato,
ma lavori a contratto ben remunerati
in funzione dei risultati ottenuti
L’anziano precoce ha difficoltà nell’aggiornarsi
perché la mente ha diminuito la capacità
di imparare nozioni nuove e complesse


Uno studioso del cervello come il sottoscritto si domanda ovviamente se sia possibile che alla base della difficoltà al riciclo scientifico e culturale del precoce vecchio ci siano ragioni concernenti le funzioni cerebrali. La risposta è scientificamente nota e sperimentalmente comprovata da molte ricerche e osservazioni e consiste nella plasticità cerebrale, oggetto dei miei studi per molti anni. La plasticità è la proprietà del cervello di cambiare funzione e nell’età infantile anche la struttura dei suoi circuiti, in risposta all’esperienza fornita dall’ambiente in cui vive. La plasticità è massima nel bambino e si mantiene notevole nel giovane adulto. Poi verso un’età che si aggira intorno a 30 anni comincia lentamente a diminuire in proporzione alla diminuzione del numero delle sinapsi e cioè dei collegamenti interneurali il cui numero è sorprendentemente alto e dell’ordine di un milione di miliardi.

La parabola della crescita e diminuzione delle sinapsi fornisce un’indicazione assai accurata della parabola delle potenzialità intellettuali del soggetto. Il vecchio precoce ha difficoltà nell’aggiornarsi sulle nuove tecnologie semplicemente perché il suo cervello ha almeno in parte perso la capacità di imparare nozioni nuove e complesse. Mantiene tuttavia importanti proprietà cerebrali accumulate durante la sua esperienza.

Il vecchio precoce sano è un conservatore, sa e fa bene quello che sa e ha già sperimentato, ma, per variata condizione biologica, ha paura del nuovo. In passato, in tempi anche relativamente recenti lo scivolamento nella vecchiaia, per dir così produttiva, era molto lento in quanto lente erano le innovazioni tecnologiche, e il lavoratore non aveva problemi nel mantenere a un livello accettabile il suo contributo produttivo. Ora la tecnologia è incalzante e lo sarà sempre di più in futuro e l’offerta del mercato per i lavori più prestigiosi e remunerati sarà nel campo della tecnologia più avanzata e a rispondere saranno i giovani e si può quindi dire che alla base del processo di rivoluzione sociale già in corso non c’è solo la rivoluzione tecnologica ma anche un’intrinseca ragione biologica. A mio parere, con molta probabilità, le strategie di reclutamento nel lavoro saranno diverse da quelle attuali e non implicheranno posti a tempo indeterminato, ma lavori a contratto ben remunerati in funzione dei risultati ottenuti, un po’ come nel mondo del calcio: se giochi bene e fai vincere la tua squadra troverai ingaggi prestigiosi altrimenti verrai eliminato; nell’impresa verrai spostato a lavori di servizio nei quali le conoscenze tecnologiche più aggiornate non sono necessarie.

La nuova classe di giovani digitalizzati potrà avere successo nella guida dell’economia ma i risultati sociali dei rapporti umani non saranno ugualmente positivi. La distanza tra i giovani rampanti e i vecchi precoci aumenterà enormemente, in sostanza con un ringiovanimento del Paese attivo a scapito dei più anziani. Verso i 50 anni sarai, a una valutazione statistica che implica eccezioni e riaggiustamenti, inesorabilmente fuori: avrai naturalmente un salario di vecchiaia precoce che ti permetterà una vita decente. Lo scopo è quello di avere “giocatori” utili che fanno vincere la “squadra”, in una sorta di darwinismo sportivo. I giovani digitalizzati sono robotici, funzionano a meraviglia fanno parte del post-umano, soffrono anche loro tuttavia, forse inconsciamente, la corsa del tempo. Conoscono tutte le ultime meravigliose diavolerie del mondo digitale, ma non hanno cultura se cultura significa solidarietà, interesse per l’altro, sapere che esisti come essere relazionale che condivide libertà, gioie e dolori con l’altro e non sei un corpo isolato.

In questo senso il Papa è persona di grande cultura, per tanti messaggi contro la cultura dello scarto. Io penso che gli americani degli Stati Uniti hanno grandi risorse scientifiche e tecnologiche, chi lo potrebbe negare, e dominano il mondo, ma sono di povera cultura dove la libertà è confusa con l’individualismo, dove esiste lo specchio come interlocutore ma l’individuo, quello più povero, si deve guardare allo specchio anche quando ha bisogno di aiuto, ad esempio di cure mediche. Gli americani dominano il mondo, come il leone la foresta, perché sono più forti. Ho l’impressione che tutti stiamo allontanandoci da un cammino di civiltà per diventare più animali, perché civiltà significa andare contro gli istinti biologici alla scoperta dell’anima, anche se questa non esistesse, perché civiltà è più nel desiderio di conoscenza che nella stessa conoscenza.

* Neuroscienziato, vicepresidente Accademia dei Lincei

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