Il doppio delle donne uccise, il triplo dei bambini: il 72 per cento di vittime civili in più, lo scorso anno, rispetto al 2022. La guerra ha portato in ogni epoca morte, ma da tempo la porta sempre più a chi non si può difendere. Una triste pietra miliare è stata la cosiddetta “coventrizzazione” della Seconda guerra mondiale, con le bombe notturne sulle città britanniche e la risposta della Raf su Dresda. Così, in più di ottant’anni è stato un continuo crescendo di numeri e nefandezze, di genocidi e di coscienze che lavano sé stesse davanti a una giustizia internazionale in grado solo di registrare, mai di punire e tanto meno impedire l’inutile strage.
Così non può stupire, ma certo lascia costernati, il fatto che il 2023 sia stato un anno quasi senza precedenti. Constatare poi che i riflettori erano puntati quasi esclusivamente su due tragedie gigantesche come la guerra in Ucraina e il conflitto israelo-palestinese è forse altrettanto naturale. E può servire, inconsciamente, a circoscrivere il male, a percepirlo un po’ più dominabile.
Ma è anche cancellare un dato di fatto: la maggior parte delle vittime militari e soprattutto civili, anche lo scorso anno, sono state “dimenticate”. Sono morte nelle foreste del Kivu nell’Est del Congo, tra le giungle del Myanmar, nei deserti del Darfur o sulle rive dei due Nilo alle porte di Khartum in Sudan. Ci sono infatti altre decine di conflitti, in quella che papa Francesco ha chiamato “terza guerra mondiale a pezzi”, che continuano ad essere combattuti. E in tutti c’è un denominatore comune: nelle guerre asimmetriche fatte di eserciti che combattono i terroristi e di terroristi che massacrano i civili dei villaggi le vittime sono donne, bambini, anziani e uomini non arruolati.
Storie simili, mai uguali di fughe da una casa devastata con ciò che resta di una vita raccolto in un fazzoletto. Si è raccontato di questo, in Ucraina, e si è parlato di madri e bambini morti sotto le bombe a guida laser in zone che i civili credevano “sicure” nella striscia di Gaza. Pochi sanno invece che l’Ituri è una regione del Congo da cui la guerra non se n’è mai andata. Sono cambiati i protagonisti – o meglio, sono cambiate le sigle – ma i carnefici sono gli stessi delle due guerre del Congo, dei massacri in Ruanda, del dramma dei grandi Laghi Africani. Macallé evoca trascorsi di gas e di colonialismo italiano, ma nella capitale del Tigrai si muore ancora di fame, di malattie curabili come conseguenza di un conflitto che ha devastato gli equilibri labili nel nord dell’Etiopia. Anche questa è guerra.
Antioquia ha invece un nome esotico. È uno dei 32 dipartimenti della Colombia, con capoluogo quella Medellín che tristemente riporta alla memoria personaggi come Pablo Escobar. Anche ad Antioquia, tempi nostri, la guerra è subdola, sotterranea: uccide gli ex guerriglieri che hanno scelto la pace, che cercano il perdono e lo offrono. E sono altri morti in guerra che non finiscono sotto i riflettori, vittime civili invisibili se non per la terribile statistica.
Di fronte a quel che succede a Gaza e in Ucraina, quando persino in questi casi nell’opinione pubblica si inizia ad avvertire un clima di assuefazione, potrebbe quasi apparire qualunquistico allargare il discorso a realtà più nascoste, meno illuminate o del tutto dimenticate, ma altrettanto drammatiche. Una sola persona lo fa: papa Francesco. Senza stancarsi di ricordare al mondo le tante, inutili stragi in corso.