Morire e nessuno lo sa (via da questo sgomento)
martedì 1 giugno 2021

Sono due martellate sul cranio le notizie che arrivano appaiate nello stesso giorno, e parlano di due uomini morti rispettivamente da un mese e da due mesi e scoperti solo adesso. Non in qualche Paese arretrato e senza comunicazioni, ma qui in Italia, nel Nord-Est, nel mio Veneto, vicino a dove vivo. Il primo caso addirittura a cento metri da casa mia. La prima domanda è: ma questi morti non contavano niente per nessuno? Esiste questa solitudine oggi, questo isolamento, questa separatezza?

Evidentemente esiste. E ci riguarda. Mi riguarda. Perché se il caso più angoscioso è accaduto vicino a casa mia, io devo ritenermi uno dei non pochi cittadini che son passati più volte davanti alla casa dove quest’uomo di 84 anni era caduto a terra ed è morto in pochi minuti o poche ore o pochi giorni. Solo, senza visite, senza aiuti, senza telefonate, senza scampanellate. È l’incubo degli anziani: cadere, avere bisogno di aiuto, ma non riuscire a chiamare nessuno, capire che quella è la fine, stai morendo nel mezzo di una città popolosa ma solo e abbandonato da tutti, come se tu fossi nel mezzo del Sahara. L’umanità non esiste per te, tu non esisti per l’umanità.

Mi sembra una morte atroce. Uso l’espressione 'una morte atroce' perché ho in mente l’espressione opposta, 'una morte dolcissima', che fa da titolo a un libro di Simone de Beauvoir, in cui Simone racconta la morte di sua madre, per un infarto, che la fece crollare ai piedi del telefono (allora nelle case c’erano i telefoni a muro) e morire lentamente, in un giorno o due, senza riuscire a drizzarsi in piedi e telefonare a qualcuno. La madre viveva da sola, e la figlia era orgogliosa di questa autonomia materna. Ma un conto è vivere, altro conto è morire. Avrà sperato, avrà aspettato, avrà creduto in qualche aiuto la madre di Simone? E a Simone non è venuto questo sospetto? Non pensava che quella poteva essere stata vissuta e patita come una morte orrenda.

È quel che penso io dei miei conterranei, uno di Padova e uno di Ponzano (Treviso). Quello di Padova aveva 84 anni ed è stato trovato dopo un mese, quello di Treviso aveva 58 anni e l’hanno scoperto dopo due mesi. Dopo un mese o due mesi qualcuno del vicinato si accorge che quel signore non esce da casa da troppi giorni, se scampanelli non apre, se telefoni non risponde, e allora avverte il 118, vengono i vigili del fuoco che entrano. La mia angoscia è per quel mese o quei due mesi. Il vecchio vicino a casa mia aveva 84 anni, non c’è un monitoraggio per gli ultraottantenni? La Comunità di Sant’Egidio, per mille ragioni benemerita, è venuta a citofonare, senza avere risposta. La mia osservazione è: per gli ultraottantenni che non si sono sposati e non hanno figli non ci dovrebbe essere sempre qualcuno con una copia delle chiavi? Se nessuno risponde al citofono, quel qualcuno non dovrebbe poter entrare? Forse è una domanda ingenua, ma sto pensando a come si può rompere l’isolamento degli ultraottantenni, se un ultraottantenne muore e per due mesi nessuno viene a saperlo, vuol dire che la sua vita vale zero. Vorrei cancellare quello zero. Nella mia città gli over 80 sono 19.600, e di questi circa 8mila vivono soli. Si tratta di monitorare questi 8mila. Dal punto di vista tecnico, si può fare automaticamente. Una macchinetta elettronica li cerca e ci avverte di chi non risponde.

Le cronache locali che ho sott’occhio parlano, sia per l’84enne che per il 58enne, di «sgomento in paese per una tragedia scoperta con così tanto ritardo». Ecco, vorrei cancellare quello sgomento.

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