La storia di Miriam, il dolore per Alfie e il «rispetto» che bisogna aver caro
domenica 29 aprile 2018

Gentile direttore,

Miriam, mia figlia, ha avuto un arresto cardiaco, poi si è ripresa, infine è morta. Non amo sentir parlare di "stato vegetativo", una definizione che considero profondamente inadeguata. La mia esperienza accanto a Miriam mi ha insegnato qualcosa di diverso. Quando la stimolavo, facendole sentire musica o voci che lei conosceva, ottenevo da lei delle risposte. E la chiusura degli occhi mi ha fatto sempre capire quando lei non era d’accordo con me su qualcosa.

Perciò Miriam non è stata una "pianta" in senso vegetale, nel suo stato era comunque una persona con tutta la sua dignità che interagiva come poteva. Miriam è deceduta dopo nove mesi e tre giorni dall’arresto cardiaco. Sono madre, non un giudice o un burocrate il quale forse non sa che "nove mesi" sono il tempo di una nascita e "tre giorni" il tempo della risurrezione di Cristo, o forse non gli importa perché non è credente. Nessuno però ha il diritto di togliere la vita a nessuno, tanto meno un giudice con una sentenza o un collegio medico con il proprio disimpegno. Potrei raccontare l’esperienza di vita che ho vissuto accanto a Miriam definita in "stato vegetativo". Oggi voglio semplicemente che la vita di Alfie, che oggi s’è spezzata, doveva essere rispettata come pure quella di molti altri in passato. Che accada nel presente. E che diventi la regola in futuro. Grazie.

Fernanda

Condivido totalmente il suo augurio finale, cara signora Fernanda, e le sono grato per questa toccante testimonianza. "Rispetto", il concetto che lei usa per ragionare "oltre il dolore" sulla morte del piccolo Alfie Evans, è parola-chiave in tutte le vicende di vita "oltre il limite" di quella che vengono considerati la normale efficienza e il benessere accettabile. A questa parola ne aggiungo sempre un’altra: "dignità". Ma per ridarle il suo senso, che non può essere ridotto, come pure si tenta di fare, a "dignitosa" giustificazione della morte procurata per abbandono terapeutico o per eutanasia o per assistenza al suicidio. Rispettare una persona malata o disabile, vigile o in stato di minima coscienza, significa riconoscere che la sua esistenza ha valore e non può comunque essere catalogata come «futile» o come «indegna». Che questo sia chiaro oggi, mentre preghiamo per Alfie e piangiamo con i suoi genitori. E che – come lei scrive – diventi salda e umana regola per il futuro.

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