domenica 10 novembre 2013
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A guardarla attraverso le cronache e i te­legiornali, questa Italia sembra logora e stanca. Nella ripetitività di scandali e accu­se, e nel tenace mantenimento di vecchi co­riacei interessi. Nel cinismo di chi non si fi­da più di nessuno, e nella amarezza di un 'bene comune' che sembra essersi eclissa­to dal nostro cielo. Le cifre della disoccupa­zione e della produttività sconfortano, e l’u­scita dalla crisi è sempre qualche mese più in là. Ma nemmeno questo forse è il problema di fondo; piuttosto, lo è una inespressa do­manda: abbiamo ancora voglia, crediamo ancora di voler vivere insieme e qui? Intanto, i ragazzi dai curricula eccellenti par­tono; e quelli che ragionevolmente non cre­dono di poter confidare in un futuro miglio­re si affidano alla sorte, al gratta-e-vinci che si paga la mattina assieme al caffè. Ci vor­rebbe un nuovo inizio, qualcosa da cui poter ricominciare. Ma che cosa? Ogni promessa sembra, in questo orizzonte grigio, usurata. Per questo una frase del messaggio della Cei per la Giornata della vita del 2 febbraio pros­simo merita di essere sottolineata: «Si tratta – dice il messaggio – di accogliere con stupore la vita, il mistero che la abita, la sua forza sor­giva, come realtà che sorregge tutte le altre, che è data e si impone da sé e pertanto non può essere soggetta all’arbitrio dell’uomo». Qualcosa di elementare: accogliere con stu­pore la vita, la sua forza sorgiva. In questi tempi amari e avari, ricominciare dal fidar­si, e dall’accogliere chi bussa alla porta. Mi­gliaia di figli che ogni anno vengono respin­ti più duramente di profughi e migranti alle frontiere. Di tutti, loro, i più «clandestini». Ac­cogliere: perfino quelli che nemmeno si af­facciano, ma restano sospesi nei pensieri e nei sogni (le giovani coppie, stando alle in­dagini, dicono di volere – nella curiosa lingua delle statistiche – 2,2 figli, e ne avranno inve­ce solo 1,3). Perché certo, assurdo sarebbe un altro bambino proprio adesso, e perdere, la madre, quel posto di lavoro precario per u­na gravidanza. Per questo la ventata di co­raggio, la folata di bella follia che si intrave­de in quella frase dovrebbe contagiare im­prenditori, banche, datori di lavoro, insom­ma tutti quei soggetti collettivi e invisibili che sprangano la porta, quando un nuovo figlio presenta la sua muta domanda d’asilo. Pen­sate se, nella crisi di questa Italia, si osasse ri­cominciare da quello che già è o che potreb­be essere, se tante madri, e padri, non fosse­ro lasciati soli. Se per dire che questo Paese vuole vivere, e continuare la sua storia, ci si voltasse insieme verso quel principio inti­midito o negato, e lo si lasciasse passare con la sua forza, e col suo mistero. A chi scrive accade, incrociando fuori da u­na cattedrale o da un museo delle scolaresche di bambini vocianti, di pensare per un istan­te, un istante soltanto, a quelli che avrebbe­ro la loro età, e non ci sono; ai respinti senza appello e senza un nome, che pure nel loro primo inizio erano assolutamente uguali a questi, vivi. E oggi ancora, e domani matti­na, di nuovo migliaia di donne sceglieranno. Molte di quelle che dicono di no, oggi, sono immigrate, o senza lavoro, e abortiscono per ragioni economiche. Pensate quanti figli ver­rebbero da un collettivo 'sì', da un fidarsi comunque, dal riconoscere con stupore e accogliere la vita che bussa – piano, come un mendicante. Il «miracolo del comincia­mento » lo chiamava la filosofa Hannah A­rendt. Il «miracolo del cominciamento», dis­se, è ciò che preserva il mondo. Che lo crea e lo rinnova, e lo rifà. In fondo, i modi per tradurre concretamen­te questo favore alla vita si potrebbero trova­re, e ancora prima questo favore si potrebbe dire, rappresentare mediaticamente. Nessu­na eco del 'dare figli alla Patria' del Venten­nio; invece, un aprire le porte, un abbraccio ai nostri invisibili clandestini. Una acco­glienza, invece della cultura dello scarto di cui parla il Papa («Un popolo che non si prende cura degli anziani e dei bambini e dei giovani non ha futuro – ha detto – perché maltratta la memoria, e la promessa»). Semplicemente, ricominciare da qui. Da un abbraccio, da una fiducia che venire al mon­do in questa terra sia un bene. Ma ci credia­mo noi, veramente? È un dubbio che si re­spira, che si sente; e che forse solo si scio­glierebbe in una preghiera lucida, e grata di ciò che un uomo, un figlio, ciascun figlio, è.​
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