giovedì 26 agosto 2010
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Dall’inizio dell’estate gli oltre 30mila abitanti di Vibo Valentia, capoluogo calabrese, combattono con l’acqua... che non c’è. Dopo aver subito – anche a causa dell’incuria e della malamministrazione (il processo è imminente) – una drammatica alluvione nel 2005, oggi sono alle prese con acqua scarsa e inquinata. Non potabile, rischiosa anche solo per lavarsi. Non è un caso unico, purtroppo, in Calabria, come raccontiamo nella nostra inchiesta nelle pagine interne. Il campionario dei disservizi e della grande sete è infinito, compresa Reggio Calabria dove in alcuni quartieri l’acqua è inquinata o salata.Eppure in Calabria l’oro blu non manca. Basta abbandonare le assetate coste e si scopre uno scenario ben poco siccitoso. Fitti boschi, fresche sorgenti, limpidi torrenti, grandi invasi. L’acqua c’è, eccome. Abbondante e di ottima qualità, al punto che in molti hanno ormai l’abitudine di salire in montagna (dalla costa sono poche decine di chilometri) per fare rifornimento. Ma perché questo "dono di Dio" non arriva agli uomini della costa e dei centri abitati? Una domanda che si pongono, come ogni anno, tante persone in giro per l’Italia, non solo in Calabria, alle prese con rubinetti a secco, turni, acque maleodoranti o, se va bene, al gusto intenso di cloro. Basta scorrere le agenzie di stampa dall’inizio dell’estate e la geografia dell’"acqua che non c’è" è davvero generale. Dal Nord al Sud: comuni biellesi in Piemonte, Olivetta San Michele in Liguria, l’isola di Giannutri in Toscana, Fano nelle Marche, Bastia Umbra in Umbria, e poi una lunga lista di paesi e città in Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna. E solo da giugno a oggi.Cambiamenti climatici? La desertificazione che avanza? No. Solo cattiva amministrazione del "bene pubblico" più prezioso, cioè l’acqua. I numeri parlano chiaro: in Italia il 95,5% della popolazione è servita da acquedotti, ma si tratta di impianti colabrodo. Infatti la media delle perdite è del 32,1% (con punte anche del 50-60%), contro una media europea di appena il 17,3%. In altre parole un terzo dell’acqua viene buttato via. Il resto dovrebbe arrivare nella case. Dovrebbe. Perché in molte zone i comuni cittadini arrivano per ultimi, dopo consumi industriali e agricoli, spesso esagerati, fuori controllo, pieni di sprechi e, caso non raro, occasione di veri e propri furti. In alcune regioni del Sud esiste una vera e propria mafia dell’acqua con una gestione parallela e parassitaria, che sfrutta, con derivazioni e invasi, il bene pubblico. Grazie ai pochi controlli se non di peggio. Ma quando poi l’acqua arriva ai rubinetti, non è detto che la qualità sia la stessa della montagna. Inquinamenti, infiltrazioni, a causa anche di un sistema di depurazione che raggiunge solo il 70,4% della popolazione contro una media europea del 94,5%. E allora non c’è da stupirsi di quanto accade a Vibo Valentia e in tante altre città assetate. Pessima amministrazione. Ci sarebbe da riflettere molto e da fare ancor di più.In questi mesi l’Italia è alle prese con un forte dibattito sui rischi (più presunti che veri) di privatizzazione dell’acqua. Più di un milione e quattrocentomila persone hanno firmato la richiesta di due referendum sul tema. Un dibattito che però ha un sapore molto ideologico. Mentre ben poco si parla del problema molto più concreto dell’acqua che non c’è o di quella che non si può bere. Più che di slogan i nostri rubinetti hanno bisogno di buoni amministratori, efficienti gestioni, corposi investimenti. Ma anche meno sprechi. L’acqua è davvero un bene di tutti, prezioso. E come tale va trattato.
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