sabato 16 aprile 2016
Per davvero Mòria è il Mediterraneo
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​Non sorge su un colle il campo dei rifugiati dell’isola di Lesbo. Non al centro di quella che sarebbe diventata la Terra Promessa, ma sulle rive di un mare dalle tante assonanze storico-classiche. E tuttavia il suo nome, Mòria camp, non può non richiamare alla mente quel Colle di Mòria dove la storia della Salvezza visse una delle sue svolte decisive. Libro della Genesi, Abramo e Isacco, il sacrificio prima richiesto come atto di fede estrema e poi fermato dalla mano stessa di Dio. In fondo era un migrante anche il padre di tutti i credenti. E suo figlio un minore, come i tanti suoi coetanei di oggi, protagonisti loro malgrado (e sempre più spesso purtroppo vittime) dell’esodo – anche questo di proporzioni bibliche – che si svolge sotto i nostri occhi. Solo una suggestione, dunque, quella coincidenza di toponimi? Forse. Ma poi, guardando le immagini del Papa a Lesbo, soprattutto i momenti del suo commovente, intenso incontro con i bambini, viene da pensare che anche dietro una semplice coincidenza si possa nascondere un messaggio.Colle di Mòria è in un certo senso diventato oggi l’intero Mediterraneo, "altare" di un sacrificio sul quale sono state immolate negli anni scorsi, insieme ai tantissimi adulti, anche migliaia di giovanissime vite. Una realtà che fa male. Bambini, ragazzi, a volte addirittura neonati. Inghiottiti dal mare, morti di fame, di freddo, di stenti durante le rischiose traversate. A volte deposti, come dolorose Pietà dei giorni nostri – le foto del corpicino di Aylan restano indelebili nella memoria – sulla sabbia di una spiaggia. E tuttavia, tra tante analogie, c’è una fondamentale differenza rispetto all’episodio biblico. Il fenomeno migratorio, che sta dietro quelle morti, non è certo "volontà" di Dio, ma causa diretta dell’egoismo umano, frutto di guerre, violenze, sfruttamento, povertà e turpe commercio delle armi (come richiamato anche ieri dal Papa), quando non proprio di una vera e propria distorsione del credo religioso.Francesco lo ha denunciato tante volte. E anche questa sua visita lampo, che fa il paio con quella a Lampedusa del 2013, va nella stessa direzione. Ma ieri il vescovo di Roma ha fatto, insieme con il patriarca di Costantinopoli e l’arcivescovo ortodosso di Atene, un passo in più. È in un certo salito sul "colle" Mòria camp, come messaggero di Dio, anche per fermare il "coltello" di chi vorrebbe – per indifferenza, per complicità, per guadagno, per ragion di Stato o per qualsiasi altro motivo – che il sacrificio non abbia fine. «L’angelo disse: "Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male"» (Genesi 22,12). A Lesbo papa Bergoglio ha idealmente ripetuto ai potenti del mondo, ai trafficanti di uomini, a coloro che lucrano sulle guerre e sulla disperazione delle gente e a quelli che le causano, le stesse parole dell’angelo. «Fermatevi. Non stendete la mano su questi piccoli (e sui loro genitori), non fate loro alcun male, accoglieteli». I suoi gesti, i suoi discorsi, la vicinanza e l’affetto seminati sull’isola del Mar Egeo si possono tradurre anche così. Si possono tradurre così le strette di mano, le carezze i sorrisi per i 150 minori non accompagnati che ha incontrato nel corso della visita. Si può tradurre così quel prendere il disegno che uno dei bimbi gli ha offerto e chiedere ai suoi collaboratori di conservarlo bene, perché, ha detto, «lo voglio sulla mia scrivania». Fino al gesto che forse più di ogni altro riassume lo spirito e il significato del viaggio. La decisione di portare con sé in Vaticano 12 rifugiati (tre famiglie), sei dei quali minori.E così alla fine di un’altra giornata storica, anche il Colle di Mòria di questo campo profughi è divenuto, proprio come dice la Bibbia, il luogo di un tempio, ancora più splendido di quello di Salomone. Il tempio della misericordia, dell’amore di Dio, della solidarietà e dell’accoglienza. Edificato con le pietre vive dei poveri (e dei poveri bambini, in special modo) in cui ancora una volta il Papa ci ha fatto vedere la carne di Cristo.
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