Mai come ora davanti alle tragedie dei migranti in mare e al caos del Sahel gli accordi per fermare i flussi stretti da Roma e Bruxelles da anni con Tripoli e da nemmeno un mese con Tunisi sembrano fallimentari. Lo provano i dati degli arrivi sulle coste italiane da Libia e Tunisia soprattutto. Siamo a un soffio da quota 100 mila e se le previsioni sono esatte, questo sarà un anno nero di esodi dolorosi e infiniti. Purtroppo, secondo l’Oim fino a luglio più di 2.060 persone sono scomparse nel Mediterraneo.
Gli accordi prevalentemente securitari di Roma e Bruxelles con gli stati costieri e con quelli che si collocano sulle rotte migratorie per esternalizzare il controllo delle frontiere e fermare i flussi si rivelano inutili. Perché la storia sta cambiando velocemente l’Africa e perché nessuno vuole giovani poveri e arrabbiati sul proprio territorio e dunque i nostri partner hanno tutto l’interesse a fare il doppio gioco. Per essere espliciti la Tunisia, impoverita dal Covid e sovraindebitata, certo non ha chiuso le coste per consentire ai pescatori del golfo di Gabes – tutti elettori del presidente Sayed -impoveriti dalla crisi del turismo di organizzare le partenze e andare addirittura a recuperare i motori dei barchini. Nel frattempo, il presidente tunisino stuzzica gli umori dell’elettorato con politiche razziste e inaccettabili come la deportazione di subsahariani regolari e irregolari da Sfax - uomini, donne e bambini - nelle zone desertiche al confine con la Libia. Solo l’accordo invocato dalle organizzazioni internazionali tra le due guardie di frontiera che si sono divise i disperati del deserto ha evitato altre tragedie come la morte per stenti della mamma Fati e della piccola Marie.
Sulla Libia e i suoi trafficanti spesso in divisa che fanno il doppio gioco incassando i soldi europei per tenere prigionieri i migranti e poi ricattano le famiglie per farli partire e riportarli nei lager c’è un’ampia letteratura.
Più a sud il panorama non è mai stato così drammatico da un decennio. Ad est l’instabilità del Corno d’Africa sta generando nuovi flussi ai quali si è aggiunto quello dal Sudan, un tempo terra di transito e oggi fatto a pezzi da quattro mesi di guerra civile e che conta più di quattro milioni di sfollati e profughi. Ad ovest il golpe in Niger sta creando un vortice depressionario di instabilità in tutto il Sahel. Mali, Burkina Faso e Niger hanno in comune le frontiere la grande povertà nonostante le risorse regolarmente predate, la piaga del jihadismo e il fatto di essere snodi strategici del traffico di carne umana, spesso gestito dai terroristi che non esitano ad attaccare campi profughi e villaggi per mettere in fuga le popolazioni. Altro collante è il sentimento antifrancese, potenza coloniale che ha sempre tenuto nella zona una politica economica e di influenza deleteria che li ha portati a venire cacciati da Mali e Burkina e li vede in seria difficoltà in Niger. Li stanno sostituendo in chiave antijihadista i mercenari russi della Wagner, presenti anche in Sudan, che potrebbero in poco tempo avere il controllo delle rotte migratorie africane e spingere i flussi sul Mediterraneo per destabilizzare l’Ue. Che divisa davanti a questa sfida epocale non va oltre i pannicelli caldi. Serve subito una politica vera per l’Africa, che vuole crescere da sola con cooperazione e partenariato.
Il Mattei tanto invocato dal governo italiano per il suo piano voleva lasciare il 75% delle risorse petrolifere ai Paesi produttori, ad esempio. Riconoscere la dignità umana e ricostruire solide alleanze non securitarie deve essere la via per governare i flussi. Prima che sia tardi.