venerdì 6 novembre 2015
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La Commissione Europea ha rilasciato ieri una nota sul potenziale impatto economico delle migrazioni nella Ue parlando (sorprendentemente per molti) di un contributo positivo alla crescita stimato tra lo 0,2% e lo 0,3%. Sembra lontanissima l’estate "calda" nella quale all’acme del panico e dell’ansia provocata negli italiani dalla retorica dell’«invasione» che accompagnava immagini e notizie degli sbarchi, si levavano da queste pagine pacate e ferme voci di contrasto alla «fabbrica della paura», ovvero a quella combinazione di media e politici che soffiavano sul fuoco per motivi di bottega. In quelle giornate afose e concitate sembrava che fossimo destinati a essere travolti dagli «stranieri». E che la virtù dell’accoglienza proclamata con coraggio dalla Chiesa e dalla parte migliore della società civile avrebbe portato alla rovina la nostra economia. I più audaci si erano spinti ad affrontare impervie dispute teologiche affermando che l’accoglienza dello straniero era roba «da teologia della liberazione». Poco alla volta, dati alla mano, si è ristabilita la verità. Gli ingressi in Italia sono tendenzialmente in calo dai picchi dei 450.000 annui di qualche anno fa ai poco più di 100.000 del 2014. E quei nuovi arrivati avevano compensato il saldo negativo tra nascite e decessi degli italiani, riuscendo appena a mantenere la popolazione costante. Proprio in quei giorni affermavamo che il 2015 non avrebbe visto nessuna marea montante. La Commissione conferma oggi questo assunto, parlando – ormai quasi alla fine dell’anno – per il 2015 di stime attorno ai 129.000 arrivi in Italia. Ricordavamo poi, ancora una volta, che gli arrivi sarebbero stati benvenuti perché avrebbero dato nuova linfa alla nostra economia in un Paese demograficamente disastrato e minacciato da un calo molto pronunciato di forza lavoro autoctona nei prossimi anni. Anche da questo punto di vista le stime più accreditate confermavano l’assunto calcolando che gli stranieri pagano allo Stato più di quando ricevono e che il tasso di imprenditorialità dei nuovi arrivati (vincitori di una triste e durissima "selezione naturale") era significativamente più alto di quello degli italiani. Tutti dati che spiegano oggi la stima della Commissione sull’effetto complessivo dei migranti sulla crescita economica e ci aiutano a capire la storia e il progresso economico di un Paese come gli Stati Uniti che ha fondato il suo successo e la sua vitalità proprio sul melting pot, ovvero su quel mescolamento di migranti provenienti da popoli e culture diverse che sono diventati progressivamente la spina dorsale della società e dell’economia. Dopo l’accecamento polemico di agosto, la prospettiva si sta via via facendo più chiara anche nella gran parte dell’opinione pubblica. Profughi e migranti sono in larghissima parte "razionali" e, una volta deciso di affrontare i rischi del viaggio, puntano ai Paesi maggiormente in grado di offrire loro prospettive. E già si muovono puntando ad aree geografiche e settori dove sanno che la loro presenza è in un certo senso utile perché esistono concrete opportunità occupazionali. In quest’ottica l’Italia non è oggi meta particolarmente ambita e per molti risulta solo terra di transito. Una volta ristabilita la verità dei fatti non bisogna però cadere nella visione altrettanto semplicista che il rapporto potenzialmente virtuoso tra migrazioni e sviluppo economico e sociale sia quasi automatico. Le dichiarazioni di ieri della Commissione chiariscono infatti che esso dipende in maniera cruciale dalla qualità delle politiche di integrazione e di assorbimento nella forza lavoro dei nuovi arrivati fondamentali per generare effetti positivi su lavoro, occupazione e contributi alle finanze pubbliche. La questione dei profughi e migranti riporta alla luce una variabile, quella demografica spesso trascurata dagli economisti. Lo sviluppo economico di un Paese è dato dalla combinazione di produttività e ore lavorate. Con una popolazione che invecchia, con un rapporto tra attivi e inattivi (bambini e anziani) attorno a 1 (cioè in sostanziale parità), non basta l’opportunità, peraltro non scontata, di attingere al serbatoio dei disoccupati. Tenendo conto soprattutto che in alcune aree del Paese la disoccupazione è molto bassa, e che dietro la disoccupazione del Mezzogiorno c’è molto nero e sommerso (in più casi sotto il segno di uno sfruttamente anche mortale) e che per il disallineamento tra qualifiche offerte e domandate i disoccupati non sono immediatamente impiegabili in molti settori nei quali restano posti di lavoro scoperti. Non possiamo dunque aspettarci per il futuro un progresso delle ore lavorate senza un robusto contributo dei migranti. E su questo non si riflette ancora abbastanza.
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