lunedì 17 novembre 2014
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Gentile direttore la ringrazio, da cristiano quale cerco di essere, per aver pubblicato lo scorso 29 ottobre 2014 su “Avvenire”, l’ultima lettera della giovane iraniana Reyhaneh alla madre, dopo aver saputo di essere stata condannata a morte. Tutti i giorni leggiamo di stupri, femminicidi, minacce e ricatti a donne che avvengono nel mondo (Italia inclusa), come nulla fosse. Un mondo debole e maschilista (che tenta di rovesciare “a cinghiate” il proprio complesso di inferiorità: da sub-ego a super-ego), trova guadagno nel perpetuare la schiavitù delle donne e nella loro umiliazione. Reyhaneh ha ucciso per salvarsi e ha pagato prima con sette anni di carcere, poi con la morte. Tutto per non volersi piegare alla logica della falsità che le avrebbe salvato la vita. Credo che non dovrà essere «accusatrice» davanti a Dio di alcuno, perché gli atti degli esseri umani, se, gravemente sbagliati, condannano gli stessi senza tribunali e senza avvocati: la legge di Dio è uguale per tutti. Dico solo che mi vergogno, a nome degli uomini (se ancora ce ne sono, a parte la “propaganda” di settore) del comportamento di altri cosiddetti uomini che si fanno vanto, con arroganza, della propria violenza e della propria codardia. Mi auguro che, una sua eventuale, risposta non sia troppo diplomatica.
Giovanni De Benedetti
 
E perché mai, stavolta, dovrei essere “diplomatico”? La diplomazia è un’arte preziosa, ma non è sempre indispensabile. Almeno non nel senso che le diamo correntemente. Su questioni come quella della maligna violenza contro le donne che lei solleva, gentile signor De Benedetti, non sono mai stato diplomatico e non comincerò di certo a esserlo adesso. La pubblicazione integrale e a partire dalla nostra prima pagina delle ultime parole di Reyhaneh Jabbari credo che un po’ lo abbia fatto capire... C’è, però, una cosa che mi preme dirle subito, gentile amico lettore: sono proprio contento che una lettera così vibrante contro le violenze sulle donne stavolta l’abbia scritta un uomo. Un uomo che ragiona come me e come tantissimi altri, ma mai abbastanza. Penso, infatti, che chiunque in qualunque modo abusa di una donna e a maggior ragione uno stupratore compia qualcosa di indegno e di ingiustificabile. Ritengo che questa persona possa emendarsi, ma che non possa restare impunita. Ho la certezza che un sistema politico e giudiziario che si dimostri incapace di individuare con chiarezza e sanzionare simili misfatti sia incivile e iniquo. E non ho esitazioni a dire che uno Stato che consenta addirittura meccanismi “legali” che trasformano la vittima in colpevole abbia tratti mostruosi. Quel mostro, purtroppo, l’abbiamo visto manifestarsi in Iran nel caso di Reyhaneh, 26 anni, impiccata per aver ucciso quando era appena diciannovenne l’uomo che stava tentando di violentarla. L’abbiamo sentito digrignare i denti quando è arrivata la notizia che i familiari del morto non avrebbero “perdonato”, loro, la giovane donna perché lei continuava a rifiutarsi di “rendere l’onore” allo stupratore. Abbiamo visto tutto questo orrore, e non lo dimenticheremo. Così come non dimenticheremo le parole senza odio, ma taglienti e profonde come una luce purissima, che Reyhaneh è riuscita a lasciare a sua mamma, alla sua famiglia, al suo popolo e a ogni persona che sa ascoltare. Quella luce fa risaltare di più il male, che però non è mai minore quando a subirlo sono donne senza voce e sconosciute ai più. Anzi il male vigliacco compiuto come in segreto, sepolto dietro facciate imbiancate e silenti oppure oscurato dal pregiudizio, dal falso perbenismo e dall’indifferenza riesce a diventare persino più lancinante. Di questo può rendersene conto chiunque abbia coscienza. Ma chi crede in Dio, che sia cristiano oppure no, dovrebbe averne una consapevolezza acuta e implacabile.
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