sabato 10 dicembre 2016
L’immagine del «buon selvaggio» integrato è stata sfruttata dal governo ma non corrisponde alla realtà Disoccupazione, dipendenze e alti tassi di criminalità segnano le comunità di aborigeni e tribali
«Messi in vetrina» e poi traditi: dramma dei nativi australiani
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Nel 30° anniversario della storica visita compiuta da Giovanni Paolo II il 29 novembre 1986 ad Alice Spring, in Australia, quando incontrò gli aborigeni e gli isolani dello Stretto di Torres, papa Francesco ha espresso la sua «spirituale vicinanza» agli aborigeni australiani e la sua «profonda stima» per il loro «antico patrimonio culturale» che manifesta la loro «genialità e la loro dignità». La cultura degli aborigeni australiani «non deve essere lasciata scomparire», ha sottolineato il Papa, riecheggiando le parole di Wojtyla, nel messaggio fatto recapitare al leader aborigeno delle Isole dello Stretto di Torres, John Lochowiak. Sicuramente, di rispetto, considerazione ma anche di incoraggiamento verso un cammino ancora troppo arduo di benessere e integrazione gli aborigeni e tribali australiani hanno bisogno.

Un nuovo rapporto governativo, il più completo mai pubblicato finora, segnala infatti il sostanziale fallimento delle politiche di sviluppo e benessere delle comunità indigene australiane. Nonostante il processo di integrazione legale, il riconoscimento dei diritti sulle terre ancestrali e la tutela della identità, tra le sparse comunità aborigene e tribali si registrano livelli preoccupanti di violenza, abusi, patologie e psicosi.

Una situazione, quella evidenziata in 'Overcoming Indigenous Disadvantage' (Superare lo svantaggio degli indigeni), che mostra il sostanziale blocco di ogni progresso nella situazione socio-sanitaria e anche sintomi di arretramento tra gli australiani aborigeni o originari delle Isole dello Stretto di Torres. Le Olimpiadi di Sydney 2000, che le autorità avevano voluto fossero una vetrina anche dell’opera di risarcimento morale e di effettiva integrazione delle comunità aborigene e tribali, sono lontane, e non solo cronologicamente. In realtà, proprio i Giochi inaugurati dall’atleta aborigena Cathy Freeman che a Sydney ha vinto l’oro nella corsa sui 400 metri, hanno mostrato le velleità, più che la realtà della politica ufficiale. Ben lontano non solo dalla condizione delle comunità sparse nell’immensità del continente australe, ma persino da quella del piccolo ghetto aborigeno di Redfern, centrale nella mappa della maggiore metropoli australiana. E lontano dalle luci e dalle coreografie dello stadio di 110mila posti che affascinarono 3,5 miliardi di spettatori nel mondo proprio per l’abbondanza di riferimenti a una realtà insieme arcana e presente, ma sicuramente non integrata o sentita come nazionale.


Non a caso, gli aborigeni hanno visto nelle Olimpiadi più che un momento di riscatto, un’occasione perduta, a favore dei bianchi. Un ulteriore sfruttamento della loro cultura tradizionale per operazioni di marketing utili a un’industria turistica che di fatto li esclude dai benefici e li impiega solo per l’1 per cento della sua forza lavoro. Solomon Bellear, leader aborigeno e tra i consulenti del Comitato organizzatore delle Olimpiadi di Sydney, ha condannato una visione «falsata e romantica degli aborigeni promossa a beneficio di altri. Non siamo tutti guerrieri di pelle nera con un boomerang in una mano e una lancia nell’altra», ha polemicamente spiegato. «La maggior parte dei visitatori, in occasione delle Olimpiadi e ancora successivamente non ha mai incontrato un aborigeno, nonostante le campagne pubblicitarie che lo strumentalizzano all’estero ma raramente lo mostrano all’interno».

Nel 2000 le proteste contro un’immagine agiografica da 'buon selvaggio' dato agli australiani originari furono numerose e accese, anche se tenute lontano dagli impianti sportivi. A pochi erano comunque sfuggiti i dati drammatici che confutavano l’ottimismo ufficiale: una durata della vita media inferiore mediamente di vent’anni a quella dei non aborigeni, una possibilità superiore di 17 volte di essere arrestati e 16 volte superiore di morire sotto custodia. Allora, i rappresentanti dei servizi medico-sanitari avevano condannato l’approccio governativo al tasso elevato di suicidi tra gli aborigeni come «ampiamente inadeguato» e chiesto al premier John Howard di prendere su serio le condizioni dei gruppi minoritari. Da allora poco o nulla è cambiato.

La situazione evidenziata nel rapporto diffuso nei giorni scorsi, frutto del coordinamento dei vari governi regionali, segnala sostanzialmente che la situazione degli indigeni australiani è «stagnante o peggiorata» in aree critiche del benessere e che queste popolazioni sono sfavorite in modo crescente. Il rapporto chiama in causa direttamente le carenze delle analisi dei programmi governativi e la loro efficacia davanti alle necessità concrete della comunità che include il 3% dei 24 milioni di australiani. Come ha commentato in tv il vice-responsabile del rapporto, Karen Chester, il dossier deve servire da pungolo per Canberra. Occorre che il governo si accerti «non solo che le tasse pagate dagli australiani vengano spese in modo corretto, ma anche che garantiscano cambiamenti a lungo termine nella vita degli indigeni». «Di oltre un migliaio di politiche e programmi ufficiali, ne abbiamo identificate soltanto 34 in tutto il Paese che abbiano avuto una valutazione ampia e trasparente», ha aggiunto.

'O vercoming Indigenous Disadvantage 2016' segnala che miglioramenti in varia misura significativi si sono registrati nella riduzione del tasso di mortalità infantile, nella scolarizzazione, nell’occupazione (passata dal 32 per cento nel 2002 al 43 per cento nel 2014, con un incremento del reddito familiare). «Incoraggiante vedere miglioramenti nell’ultimo decennio quanto a completamento dei 12 anni di studio dell’obbligo e anche successivamente, ma il tasso di incarcerazione tra aborigeni e tribali è cresciuto del 77 per cento nell’ultimo decennio e il tasso di ospedalizzazione per autolesionismo del 56 per cento», ricorda Peter Harris, responsabile della commissione che ha elaborato il rapporto. Davanti a questi dati positivi, tanti altri confermano la sostanziale inefficacia delle politiche di integrazione e sviluppo. La violenza domestica, ad esempio, che coinvolge il 22 per cento dei nuclei familiari, associata non casualmente a un livello di alcoolismo cronico. E i dati sono inalterati rispetto al 2002. Restano problematiche identitarie, ma anche pratiche. Il possesso delle terre ancestrali, ad esempio, ora concretizzato per il 74 per cento delle comunità indigene contro il 70 per cento del 2002, mentre la percentuale di popolazione indigena che studia e parla lingue indigene ancora lo scorso anno non era cambiata dal 2008.

Difficile parlare di progresso reale, quanto il tasso di criminalità degli indigeni adulti è rimasto sostanzialmente inalterato tra il 2002 e il 2014-2015 e che se la carcerazione dei minori è diminuita resta sempre di 24 volte superiore a quella dei coetanei non indigeni. Le dipendenze sono cresciute, coinvolgendo ora il 31 per cento degli adulti contro il 23 per cento del 2002. Davanti ai dati sull’abuso di stupefacenti e alcool segnalati nel rapporto annuale 'Closing the Gap' (Colmare il divario), che intende fotografare la condizione degli indigeni australiani utilizzando parametri considerati da molti ormai inadeguati, lo stesso primo ministro Malcolm Turnbull ha dovuto ammettere qualche mese fa che l’Australia sta fallendo nel tentativo di eliminare «il divario inaccettabile» nella speranza di vita tra aborigeni e non-aborigeni.

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