martedì 18 novembre 2014
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Gli squilibri idrogeologici della nostra Italia, la fragilità del suo territorio e la follia autolesionista di azioni, omissioni, noncuranze e speculazioni nel governo della terra e delle acque sono al centro di una lunghissima battaglia giornalistica di "Avvenire". Gli amici lettori sanno che l’abbiamo sviluppata senza sosta, anche quando mancava l’urgenza della cronaca e sembrava impossibile e persino inutile cercare di imporre temi come questi, pur così essenziali, all’attenzione generale. Abbiamo meticolosamente tenuto la contabilità degli interventi di protezione civile nei tanti, continui dopo-disastro per sottolineare la necessità di capovolgere questa insostenibile logica, investendo finalmente per prevenire ciò che, invece, da decenni si continua a spendere, in emergenza, per soccorrere le vittime e per riparare i danni. Abbiamo fatto tutto questo, e continuiamo a farlo, per convinzione civile e per coscienza cristiana, i due grandi "motori" del nostro lavoro. È stata ed è una campagna informativa condotta con misura (perché non sopportiamo sottovalutazioni e omertà, e abbiamo l’allergia per i titoli "strillati" fini a se stessi), ma è proprio questa la ragione per cui negli ultimi vent’anni abbiamo trovato argomenti sempre più forti per sostenerla e maturato la consapevolezza che l’allarme contro il «lasciar fare» dovesse farsi sempre più incalzante. In questi nuovi giorni di "piogge monsoniche", di frane, di alluvioni, di esondazioni, di sofferenze ingiuste e di lutti lancinanti stiamo infatti avendo l’ennesima controprova dell’opportunità di un tale impegno e della sensatezza dell’acuta percezione del rischio che incombe su tanti italiani e italiane, un po’ ovunque ormai nel Bel Paese. E stavolta più d’ogni altra volta l’abbiamo sulla nostra stessa pelle.Il giornale che state leggendo è stato lavorato dai giornalisti, dai poligrafici e dai tecnici di "Avvenire" in condizioni di assoluta emergenza, affrontando grandi difficoltà e disagi d’ogni sorta, superando un black out che per 42 ore ci ha costretto a sospendere anche l’attività del nostro sito online. Sabato sera la stessa dedizione e la stessa abnegazione avevano consentito di mandare in stampa, sul filo dei minuti prima dell’inesorabile stop da allagamento, un giornale ancora più carico di notizie dall’Italia e dal mondo, tra le quali primeggiava lo «scoop» sulla lettera del numero uno della Commissione europea Juncker al premier Renzi e al presidente dell’Europarlamento Schulz con le coordinate di un annunciato (e auspicato) cambio di marcia della politica Ue. Era stata una gara contro il tempo, ben più dura di quelle che nei quotidiani ogni cronista impara subito ad affrontare. Il tempo divoratore dei nostri sforzi, sabato 15 novembre, tra il pomeriggio e la prima notte, ad "Avvenire" l’abbiamo calcolato attraverso l’enorme clessidra ad acqua in cui si era convertito l’edificio di Piazza Carbonari che accoglie la nostra redazione centrale e i nostri uffici. E da direttore, unendo la mia voce a quella dell’editore e del direttore generale, non sarò mai abbastanza grato ai miei colleghi e a tutti gli altri collaboratori per il sangue freddo e la professionalità dimostrate.Ma anche questa storia che ci riguarda direttamente (e che non è affatto conclusa) s’iscrive, secondo un tipo di narrazione giornalistica che ci è congeniale, in una storia più grande che ci preme di interpretare e di contribuire a cambiare in meglio. Piazza Carbonari è uno dei cuori dolenti di una Milano travolta dai suoi fiumi di nuovo indocili e da torrenti di pioggia mai così imponenti nell’ultimo secolo. Vittima, dunque, con altre e persino più martoriate località italiane di eventi eccezionali, ma non di un destino cinico e baro. Perché non c’è alcuna fatalità in quello che è accaduto. Proprio nessuna. Certo, non tutto dipende dall’uomo e non tutto può essere regimentato. Ci sono forze e situazioni che lo sovrastano, che sovrastano tutti noi. Ma nessuna situazione e nessuna forza sulla faccia della terra può toglierci la responsabilità di fare tutto ciò che è tecnicamente e ragionevolmente utile per limitare o comunque non accrescere il pericolo. Si chiama capacità di governo ed è l’esatto contrario del «lasciar fare» (e i nostri vecchi, contadini e cittadini lo sapevano bene). Sembra che stia tornando di moda. Vogliamo sperare che sia così.
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