lunedì 5 gennaio 2015
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I migranti che tentano il mare per approdare alle coste d’Italia (alle coste d’Europa, proviamo noi e provino, una buona volta, i nostri concittadini e gli altri governanti europei a pensarlo una volta per tutte), sempre più frequentemente fuggono dalla guerra, oltre che dalla fame e dalla disperazione. Rischiano la vita, e in molti la perdono, in cerca di uno spiraglio di vita. La loro fuga è un esodo, vale a dire la ricerca di una liberazione; perché alle spalle non c’è soltanto l’oppressione della miseria e la devastazione delle bombe, la perdita di tutto, lo strazio dei corpi, ma la tortura dell’anima, ferita nella sua intima libertà. Possiamo chiamare non solo disumana questa condizione di vita, ma crudele. La crudeltà abita il dominio del male, sta nel suo mistero di tenebra. I racconti che ce ne vengono fatti ci turbano, le scene viste in rete ci trafiggono.La via di fuga nel deserto liquido del Mediterraneo non ha condottieri per il salvataggio, ma trafficanti di carne umana per il lucro. È lo scenario di una seconda crudeltà, ora che dalle spiagge della tratta muovono carrette del mare ben più grandi, capaci di tenersi a galla anche nelle agitate acque d’inverno, e di restare alla deriva quando l’equipaggio degli schiavisti le abbandona e batte in fuga; tecnica questa che sembra esser diventata uno dei protocolli per sbarazzarsi dell’ingombro prima del pericoloso approdo. Una specie di naufragio bianco, lasciato alla sorte degli avvistamenti e dei salvataggi, con quell’angoscia di abbandono che sta tra i preludi di una possibile morte incombente e gli istinti che invocano vita. Crudeltà.Ma c’è una terza forma di crudeltà, incipiente forse e neppure del tutto cosciente, che spira come un vento gelato dentro la terraferma, lontano dalle coste, lontano dai volti, fino al centro d’Europa, fino al profondo Nord del Vecchio Continente. Nasce lontano dal giorno dei soccorsi, dell’accoglienza e del riparo immediato, dell’ascolto e poi del discernimento che separa i gruppi e le storie e le ragioni di imbarco. Non va confusa con la riflessione sugli aspetti problematici della spinta migratoria, e sulla ragionevolezza dei quesiti sui flussi sostenibili, fuor d’emergenza s’intende; e sulla qualità dell’accoglienza, sulle politiche alterne di integrazione culturale oppure di molteplicità peculiare, e su quanto l’esperienza passata ci ha dato, di fiori e di spine. Ma ora in Germania un movimento xenofobo va usando persino la Croce come segno di lotta patriottica contro quella che chiama la penetrazione islamica nell’occidente. In Svezia, quattro moschee sono state attaccate con ordigni incendiari nel giro di pochi giorni. No, è altra cosa, questo vento di rifiuto e di paura che cancella dal pensiero l’orizzonte di fuoco e di morte da cui i migranti (spesso cristiani perseguitati dal fuoco e dalla morte portati sotto bandiere opposte in una terra dalla quale sono stati brutalmente cacciati) cercano scampo fra noi, per concentrasi sul proprio villaggio o sul proprio giardino di casa come baluardo di un equilibrio statico che non dev’essere comunque turbato da forestieri.Forestieri, stranieri, etimologicamente barbari, non prossimi, anzi "out group". Anzi contaminatori minacciosi. Paura, ostilità, forse odio; crudeltà certamente. Perché non è sui migranti in fuga, qualunque fede professino, che può scaricarsi la vendetta delle atrocità che compiono nel loro Paese i fanatici sanguinari e persecutori. Fermare quelli è giusto; il loro Dio (il nostro Dio, c’è solo un Dio) non li approva; nella loro crudeltà mentono su Dio. Perseguitare questi è crudele; come non è da cristiani chiamare Cristo alla guerra, bestemmiando il suo Natale. Non ci faremo imitatori di crudeltà, la gloria nell’altissimo cielo è anche la pace che la terra invoca, e che può dipendere da noi.
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