giovedì 30 settembre 2021
La narrazione prevalente non considera le differenze rispetto al passato e spinge verso lo scontro ideologico. Questa è una strada pericolosa che può scavare abissi tra i popoli
Ma tra l'Occidente e la Cina non è una nuova guerra fredda

Ansa

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Pubblichiamo un estratto dell’intervento di Agostino Giovagnoli al convegno on line "Occidente e Cina: dialogo e collaborazione tra XX e XXI secolo" che si tiene questa mattina, dalle 9 alle 12, sui canali social dell’Istituto Luigi Sturzo. I lavori saranno aperti da un messaggio di saluto del ministro degli Esteri Luigi di Maio e del segretario di Stato cardinale Pietro Parolin e da un intervento del vice capo dell’ambasciata cinese in Italia Zheng Xuan. Durante il convegno, in collaborazione con l’Università Cattolica, sono previste relazioni di Nicola Antognetti, Yao Yu, Guido Samarani, Valeria Termini, Mechthild Leutner ed Elisa Giunipero.


Si parla molto oggi di nuova guerra fredda fra Occidente e Cina. Accade anche in questo caso ciò che avviene quando eventi del passato, situazioni presenti e previsioni future vengono intrecciati in una narrazione pubblica. Non sempre tali narrazioni rispecchiano la realtà: le loro funzioni sono in genere altre, come far sentire parte di una storia comune; offrire un senso di identità collettiva basato su eventi del passato; alimentare l’attesa di un destino che ispira paure o speranze. Richiamando già nel nome la vecchia guerra fredda, la narrazione di una nuova guerra fredda rimuove la complessità del mondo e la riduce alla divisione in due soli blocchi; collega questioni di natura molto diversa in un’unica contrapposizione; fa dipendere il futuro dei popoli dallo scontro fra i due blocchi. In quest’ottica, Niall Ferguson ha riassunto la storia del mondo tra XX e XXI secolo in questo modo: tra il 1947 e il 1987 c’è stato «l’ordine globale […] della Guerra Fredda. Poi c’è stato un periodo di indiscusso primato americano, che Clinton, Bush e Obama hanno sprecato. Ora siamo nella seconda guerra fredda».

Ferguson segue dunque il filo conduttore dei tentativi di affermazione dell’egemonia americana, cui collega anche quanto avviene oggi nella chiave della (vecchia e nuova) guerra fredda. Ma tale ricostruzione dimentica che il contesto storico mondiale è profondamente cambiato tra XX e XXI secolo e che sono cambiati anche i termini in cui si è posta – e si pone oggi – la questione dell’egemonia americana e/o occidentale. Lo stesso Ferguson lo ha messo involontariamente in evidenza, in Occidente, ascesa e declino di una civiltà del 2011, quando si è chiesto: «Ci troviamo davvero alla fine del mondo occidentale e alle soglie di una nuova epoca orientale? ». La sua risposta infatti è stata affermativa: «Stiamo vivendo la conclusione di cinquecento anni di predominio occidentale». (...) Fine del predominio occidentale e ascesa dell’Asia costituiscono una questione molto diversa dallo scontro fra capitalismo americano e comunismo sovietico che è stata al centro della vecchia guerra fredda e che si è concluso definitivamente con il collasso dell’Urss.

Fine del sistema-mondo occidentale. Parlando di declino occidentale e di ascesa orientale, Ferguson si collega implicitamente alle teorie del 'clash of civilisation', esposta nel 1993 da Samuel Huntington e divenuta famosa dopo l’attentato alle Twin Towers del 2001. È un nucleo cruciale del pensiero neoconservatore americano che si è affermato negli anni Novanta, ma le cui origini risalgono a circa venti anni prima, quando Huntington lavorava nel Dipartimento di Stato americano. Erano gli anni dopo la sconfitta degli Usa in Vietnam, quando Kissinger delineava una nuova politica estera, che superava il bipolarismo e apriva alla prospettiva di un futuro multipolarismo. In questa politica è sviluppato anche il nuovo rapporto fra gli Stati Uniti e la Cina. Nell’immediato, tale rapporto si basava sulla comune avversione all’Unione sovietica, ma sullo sfondo c’era la formazione di un mondo multipolare di cui la classe dirigente americana cominciava a prendere coscienza. (...)

Dalla 'grande divergenza' alla 'nuova convergenza'. Negli anni Settanta, tali cambiamenti cominciarono a farsi sentire in modo rilevante sul piano economico, a cominciare dallo 'shock petrolifero' e dalla crescita delle 'tigri asiatiche' che mostrarono l’inedita capacità del cosiddetto 'Terzo Mondo' di condizionare le economie più avanzate. Alla fine del decennio, inoltre, cominciò la grande crescita cinese, dopo l’adozione della politica di riforme e apertura. I paesi occidentali reagirono ristrutturando le proprie economie e adottando – seppure non tutti e non in modo omogeneo – l’orientamento neoliberista su cui più tardi si è formato il Washington consensus. I neoliberisti hanno cercato di gestire lo 'choc globale' e i nuovi processi di globalizzazione secondo gli interessi occidentali (ma il mondo globalizzato ha mostrato di non poter essere governato facilmente da nessuno). Agli orientamenti neoliberisti si è collegato anche il pensiero politico neoconservatore animato da uno spirito di 'riscatto' occidentale e, in particolare, di riaffermazione dell’egemonia americana di cui però sono intanto venuti meno i presupposti sia del sistema-mondo moderno sia della vecchia guerra fredda.

Tra la fine del XX secolo e i primi decenni del XXI si è poi consumata la fine di quella che Kennet Pomeranz ha chiamato la 'grande divergenza': un crescente divario, a partire dai primi decenni dell’Ottocento, tra le economie europee e quelle di paesi asiatici – come la Cina – che ancora nel Settecento erano del tutto simili per speranza di vita, consumi, mercato dei beni e dei fattori produttivi ecc... Nel nuovo millennio, infatti, tale divergenza si è progressivamente ridotta, in molti casi si è azzerata e in altri si è persino rovesciata in un 'primato cinese', con processi sorprendenti per la loro rapidità. Sono novità che molti occidentali fanno fatica ad accettare ma dal punto di vista storico è comprensibile che le cose siano andate in questa direzione: la 'grande divergenza' ha costituito un’eccezione che, non a caso, è durata 'appena' due secoli, un tempo relativamente breve rispetto a relazioni tra Occidente e Oriente che contano migliaia di anni. Un libro recente che descrive questi cambiamenti si intitola significativamente La grande convergenza, quasi a voler indicare che la 'grande divergenza' ha costituito una parentesi ora in via di chiusura. Questi cambiamenti hanno sorpreso gli occidentali anche perché la rapidissima crescita degli ultimi decenni non ha portato la società cinese ad adottare la democrazia occidentale. (...)

Conclusione. È improbabile che la nuova guerra fredda conduca a una nuova egemonia americana. Come si è detto, infatti, non c’è più il sistema-mondo occidentale durato cinque secoli, nella cui fase finale gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo effettivamente egemonico. E non c’è più neanche – come nella vecchia guerra fredda – quella concorrenza con un sistema politico- economico totalmente diverso e separato, del cui collasso gli Stati Uniti hanno ampiamente beneficiato. Il mondo è diventato troppo plurale e complesso per sopportare forme di dominio unipolare. Ciò vale, in altro modo, anche per la Cina: è difficile che all’egemonia americana si sostituisca una nuova egemonia cinese. Se difficilmente condurrà all’affermazione di una nuova egemonia, la narrazione di una nuova guerra fredda spinge però verso una contrapposizione radicale. Paradossalmente tale spinta è tanto più forte quanto più sono deboli le ragioni per ricondurre molte questioni diverse a un’unica contrapposizione totale. Oggi non ci sono più gli Stati Uniti e i loro alleati europei da una parte e l’Unione sovietica dall’altra, ma gli Stati Uniti – con quali alleati è ancora da capire esattamente – e la Repubblica popolare cinese. Il terreno principale del conflitto non riguarda più l’Europa, ma l’Estremo Oriente (o l’Indo-Pacifico). Non ci sono più due sistemi economici radicalmente diversi e totalmente separati, perché i protagonisti della nuova guerra fredda si muovono in un comune sistema economico mondiale e in molti settori sono interdipendenti. Il confronto perciò riguarda soprattutto la prevalenza in alcune aree dell’Asia, la concorrenza tecnologico-industriale e differenti visioni politico-istituzionali. Sono questioni complesse ma che non si saldano immediatamente l’una all’altra. La narrazione della nuova guerra fredda cerca di farlo, senza considerare però le differenze rispetto al passato e spingendo verso lo scontro ideologico. È una strada pericolosa: saldandosi ad una distanza sul terreno storico e culturale tra Occidente e Cina maggiore di quella esistente su questo terreno fra i due blocchi della vecchia guerra fredda, può scavare abissi profondi tra i popoli.

Esistono però anche strade diverse. Già tra il 1947 e il 1989 - soprattutto dopo il 1978 - ci sono state forme di collaborazione e di dialogo tra paesi occidentali e Repubblica popolare cinese. Si sono sviluppate uscendo dagli schemi della contrapposizione totale. Nel caso dell’Italia e della Germania, ad esempio, c’è sempre stato il tentativo di mantenere scambi economici e culturali. Negli anni Settanta e Ottanta i rapporti si sono estesi anche al campo politico e diplomatico. In un momento particolarmente difficile come il 1989, l’Italia e altri paesi europei hanno continuato a sostenere la volontà cinese di inserirsi sempre di più nella comunità internazionale. Finita la guerra fredda si è aperta, una strada originale e inattesa tra la S. Sede e la Repubblica popolare cinese. Oggi poi il dialogo e la collaborazione sono una necessità per la salvezza del pianeta in campi come l’ambiente e sul terreno della cultura i contatti sono sempre possibili e positivi. I recenti avvenimenti hanno inoltre mostrato l’importanza di trovare forme di convergenza per gestire situazioni internazionali particolarmente delicate come l’Afghanistan. L’Italia è tra i paesi che stanno cercando di percorrere questa strada.

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