sabato 23 dicembre 2017
Non è svalorizzata la relazione di cura e di fiducia con i pazienti
Foto Ansa

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Caro direttore,

sono trascorsi pochi giorni dall’approvazione della legge sulle Disposizioni anticipate di trattamento (Dat) e, com’era del resto prevedibile, si stanno moltiplicando gli interventi e le prese di posizione di chi le interpreta maldestramente solo come un primo passo verso il vero obiettivo, che sarebbe costituito dal presunto diritto all’eutanasia, e di chi al contrario si straccia le vesti perché l’eutanasia di fatto sarebbe già stata introdotta proprio con la legge in questione. Di fronte a interpretazioni così contrastanti, forse è opportuno dedicarsi in primo luogo alla lettura del testo approvato, come anche lei ha sollecitato a fare nel suo editoriale dello 15 dicembre 2017 («No, non è un bel giorno»).

Le proponiamo, qui, una lettura attenta che, pur partendo da analoghe preoccupazioni, si discosta dalla sua e di altri commentatori che si sono affacciati dalle pagine di 'Avvenire'. Ebbene, se si va a scorrere il dettato dell’art. 1, c. 6, si scopre che «il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinicoassistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali». Ne consegue, quindi, che ancor oggi, e per fortuna - aggiungiamo -, l’eutanasia così come il suicidio medicalmente assistito continuano a rimanere in Italia delle pratiche illecite, e questo sia a livello giuridico (non ci risulta che gli artt. 579 e 580 del Codice Penale siano stati abrogati) sia a livello deontologico (si veda l’art. 17 del Codice italiano di Deontologia medica).

Ora, se è vero che la nuova legge ribadisce il diritto, sulla base dell’art. 32 della Costituzione, di rifiutare o di rinunciare alle procedure diagnostico-terapeutiche, dando così la possibilità al malato di negare il consenso ai trattamenti o di revocare l’assenso espresso in precedenza, è altrettanto vero - a nostro avviso - che essa valorizza la relazione di cura e di fiducia tra medico e paziente, promuovendo al tempo stesso l’autonomia professionale del primo e la l’autodeterminazione del secondo. Quanto appena detto vale anche e soprattutto nei casi in cui il paziente rifiuti o rinunci a trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, scenario questo rispetto al quale la nuova legge esprime il seguente dettame: «il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica» (art. 1, c. 5).

Di fronte a tali affermazioni, è difficile sostenere che la figura del medico si riduca a mero esecutore delle volontà dell’assistito; anzi, egli è chiamato ad analizzare criticamente il volere del paziente e a promuovere «la pianificazione condivisa delle cure», come si dice all’art. 5. Queste indicazioni sono importanti perché ricordano come il consenso informato, pur essendo una condizione necessaria, risulti comunque non sufficiente per rendere eticamente lecito il mancato avvio o la sospensione dei trattamenti. Si tratta infatti di una decisione che coinvolge anche il professionista sanitario, le cui conoscenze e competenze sono indispensabili in vista della formulazione di un giudizio sulla proporzionalità o meno dei trattamenti oggetto di rifiuto o rinuncia. Un esplicito riferimento a riguardo compare all’art. 4, c. 5: qui è previsto che il medico, pur sempre nella relazione con il fiduciario, possa disattendere le volontà del paziente consegnate alle Dat, qualora il contenuto delle stesse risulti essere incongruo o non corrispondente all’attuale condizione clinica dell’assistito o qualora quest’ultimo possa migliorare le proprie condizioni di vita grazie a nuove terapie non disponibili al momento della sottoscrizione delle Dat.

Non sembra proprio, quindi, che l’autodeterminazione del paziente venga qui assolutizzata, come altri commentatori sostengono. Certo, alcuni temono che la legge, sebbene non possa essere definita come eutanasica, costituisca comunque il primo passo verso la legalizzazione dell’eutanasia. Si tratta del cosiddetto argomento del pendio scivoloso (o del piano inclinato), un argomento suggestivo che tuttavia non implica alcuna necessità logica (non è affatto detto che 'biotestamento oggi' significhi 'eutanasia domani'). E paradossalmente l’argomento potrebbe essere rovesciato: proprio l’assenza di una legge che contemplasse la legittimità, a determinate condizioni, del rifiuto e della rinuncia alle cure potrebbe aver incentivato negli ultimi anni richieste che andavano ben al di là del rifiuto dell’accanimento clinico, con relative fughe all’estero, alla ricerca di una morte medicalmente assistita.

Basti qui pensare alle recenti, dolorose vicende di Dj Fabo e Loris Bertocco, a cui hanno fatto seguito una crescente partecipazione da parte dell’opinione pubblica e spesso anche la parallela legittimazione, sul piano culturale e sociale, delle pratiche eutanasiche. L’eventuale futura legalizzazione dell’eutanasia a nostro parere non rappresenterebbe affatto una conquista di civiltà, ma una cocente sconfitta. Anche per evitare questo esito, riteniamo che una legge lungamente attesa possa oggi costituire una risorsa, specie là dove essa valorizza la relazione di cura, stigmatizza ogni forma di abbandono terapeutico e indirettamente mette in guardia dalla possibile tentazione del ricorso, assai più diffuso di quanto si pensi, all’accanimento.

*Ordinario di Bioetica e Filosofia Morale

**Docente di Filosofia Morale (Università di Padova)

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