sabato 30 dicembre 2023
«Io non riesco a vivere senza Fede. Ci ho provato a rinnegarla con l'unico risultato di brancolare nel buio, procedendo a tentoni nelle giornate vacue, smarrita in un labirinto esistenziale... »
Vladimir Luxuria in un recente incontro a Torino

Vladimir Luxuria in un recente incontro a Torino - Jessica Pasqualon - Ansa

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Ha ricevuto molta eco la lettera pubblicata da Avvenire il 29 dicembre, in cui Vladimir Luxuria ripercorre il proprio cammino di fede. Ne pubblichiamo qui di seguito il testo integrale.

Caro direttore,

io non riesco a vivere senza Fede. Ci ho provato a rinnegarla con l'unico risultato di brancolare nel buio, procedendo a tentoni nelle giornate vacue, stordita da sostanze varie, smarrita in un labirinto esistenziale. Nutro un profondo rispetto per gli atei e gli agnostici, ma io, rispetto a loro senza Fede sono una pianta avvizzita in un terreno arido. Forse perché la Fede è stata sempre presente nella mia vita fin dai tempi della mia adolescenza quando frequentavo la parrocchia Santo Stefano nella mia città, a Foggia. Battesimo, comunione, cresima. Ho fatto il chierichetto, cantavo nel coro, collaboravo nella catechesi ai bambini, facevo animazione nelle attività ricreative organizzando spettacoli di teatro e ballo tanto tempo prima di diventare direttrice artistica delle serate romane di Muccassassina.

Verso i 16 anni, durante la confessione con il parroco, zavorrata dal peso del silenzio, della colpa, dalla condanna osai liberarmi. Parlai della mia interiorità femminile, del mio desiderio di cambiare aspetto. Il confessore, dopo avermi ascoltata in silenzio e dopo una lunga pausa, mi rispose che, se avevo intenzione di continuare a frequentare la Chiesa, avrei dovuto reprimere queste tentazioni diaboliche attraverso la preghiera. Acconsentii a questa sua richiesta perché non avevo nessuna intenzione di smettere di frequentare la parrocchia. Ci ho provato per giorni, settimane, mesi: Mi rendevo però conto che con il passare del tempo stavo diventando una persona peggiore, malinconica, cupa, irascibile e, quel che è peggio, invidiosa nei confronti delle donne, di coloro nelle quali mi immedesimavo ma che non potevo farlo e nemmeno dirlo. In altre parole, sentivo di allontanarmi da Dio.

La mia anima femminile era dentro un corpo diventato un fardello insopportabile. Perché Dio mi aveva creata così? Ero una scheggia impazzita, sbagliata e non prevista nel creato divino? Dopo due anni, mi sono trovata davanti a un bivio: la Chiesa o me stessa, la morte o la vita. Ho lasciato la Chiesa sentendo dietro le spalle il rumore sordo di una porta chiusa. Il mio istinto di sopravvivenza mi ha portata allora a lottare per sentirmi viva, uguale agli altri, realizzata, a riconoscermi davanti a uno specchio e a me stessa. Ero delusa da una Chiesa che non parlava di amore ma di disordine morale, pericolo sociale, peccato.

Ai Pride ero la più accesa avversatrice del Vaticano con cartelli e abbigliamento: quando il Vaticano definì peccato l'uso del preservativo mentre in Africa l'Aids falcidiava interi villaggi e dopo essere stata al capezzale di tanti amici scarnificati dal dolore su letti di ospedale di malattie infettive, decisi di andare al Pride di Bari con un’aureola a forma di condom e il cartello “Fai una buona azione: proteggiti”. Sono stata a protestare per la visita di Papa Wojtyla in Campidoglio vestita da Eva peccatrice. Quando Papa Ratzinger definì il comportamento omosessuale “intrinsecamente cattivo dal punto di vista morale e oggettivamente disordinata” i Pride furono orientati soprattutto in chiave anti-vaticana e di forte critica verso un Parlamento laico solo a parole. Il World Pride a Roma nel 2000 fu la nostra risposta al Giubileo. Insomma, una lotta continua per non dimenticare chi mi avesse rifiutata cacciandomi dalla Chiesa.

Eppure, senza Fede non riuscivo a vivere, senza Fede in Dio senza fede in me stessa. Fu così che per abbracciare un credo mi sono convertita al buddhismo che ho praticato per tanti anni e che mi ha salvata dal periodo più buio della mia vita. Avevo così trovato un equilibrio: non rinnegare la mia identità di genere e al tempo stesso sentirmi accolta da una filosofia religiosa. Era passato tanto tempo e io mi sentivo tranquilla. La religione cattolica non mi contemplava e io ricambiavo il favore. Qualcosa di sorprendente, però, la vita me la doveva ancora riservare. Conobbi alcuni sacerdoti, tra i quali don Vitaliano della Sala e soprattutto don Andrea Gallo della Comunità san Benedetto di Genova che scompigliano i miei piani: anche io avevo diritto di essere cristiana mi dicevano. Io mi arrabbiavo perché per me era come se qualcuno mi chiedesse di entrare in un luogo da intrusa e non invitata.

Eppure, queste loro affermazioni mi avevano messa in crisi. Succede poi che don Andrea è già malato a letto mentre viene eletto Papa Francesco e “il don” mi dice “ascoltalo questo Papa, usa parole diverse, è il Papa dei poveri, degli ultimi, degli esclusi”. Ai funerali di don Gallo la comunità trans genovese delle “Princese” mi esorta a prendere la comunione per rispetto del loro tanto amato prete di strada e io ubbidisco: l'ostia mi sarà data dal cardinale Angelo Bagnasco sollevando tante critiche sia da alcuni cattolici intransigenti sia da alcuni militanti lgbtqi* che interpretarono questo mio gesto come un aver tradito le mie lotte passate. Decisi dunque che quella sarebbe stata la mia ultima Comunione.

Ma qualcosa doveva ancora succedere. Ero a Napoli ai quartieri spagnoli ed entrai nella piccola chiesa di Santa Maria Francesca delle Cinque Piaghe. Ero comunque un'appassionata di arte e curiosità e così giustificavo a me stessa il desiderio di entrare in una Chiesa. Entrai, stava cominciando la Messa. Mi sedetti all'ultimo banco, non volevo mi riconoscessero (ero già molto popolare) temevo che qualcuno mi chiedesse: «E tu cosa c'entri qui?», Ascoltai la Messa e quando il parroco disse: «Non sono degno di partecipare alla Tua mensa ma dì soltanto una parola e io sarò salvato», questa frase mi è entrata nelle profondità del cuore facendomi commuovere. Nel momento della Comunione una signora anziana mi si è avvicinata e mi ha detto: «Uè e che aspetti a prendere l'Ostia?».

La parola era arrivata. Il giorno dopo mi recai, come faccio da anni ogni 2 febbraio, a Montevergine da “Mamma Schiavona”, la Madonna protettrice di gay, lesbiche e trans e davanti alla Sua immagine è avvenuta la mia conversione. Alla Candelora si è accesa una luce dentro di me. Da molto tempo ho ritrovato la Fede e ovunque sono stata ho trovato fedeli contenti di vedermi a Messa e sacerdoti più inclini all'accoglienza che al rifiuto.

Un altro bel regalo mi è arrivato dalla voce al telefono di un altro don Andrea, don Andrea Conocchia il prete di Torvajanica che ha accolto trans straniere e indigenti portandole in Vaticano e dando loro un conforto economico e spirituale. Mi dice al telefono: «Vuoi conoscere Papa Francesco?». E così mercoledì 13 dicembre con l'icona della Madonna di Montevergine tra le mani ho stretto la mano a quel Papa che ci ha definite “figlie di Dio” ringraziandolo. So che ci sono ancora tanti ostacoli per una piena accoglienza, che la strada è tortuosa ed è in salita... però questa strada per la prima volta nella storia della Chiesa è stata imboccata. So anche che rimane tanta diffidenza giustificata da parte della comunità lgbtqi* verso il Vaticano. Ognuno dovrebbe avere il diritto alla Fede che non è incompatibile con l'orientamento sessuale o l'identità di genere.

Sono cattolica con la consapevolezza di affrontare in maniera laica i temi etici, con momenti di sconforto e momenti di entusiasmo. Durante l'incontro il Santo Padre ha ricordato la parola aramaica di Gesù nel Vangelo: “effatà” che significa “apriti”. E io ho aperto il mio cuore, le braccia, la bocca e le orecchie ai segnali che mi ha mandato il Signore. Adesso mi sento più serena.

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