venerdì 11 settembre 2009
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Il solito provincialismo italiano ha indotto in errore alcuni commentatori, compreso qualche autorevole accademico. Perché la pur non recente lettera del Dicastero della Santa Sede per l’educazione cattolica, relativa all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole, da qualcuno è stata letta come riferita alla situazione italiana. Di qui il sollevarsi delle solite critiche ed il ravvivarsi di una polemica già attizzata, qualche settimana fa, da una discutibilissima sentenza del Tar del Lazio.In realtà il documento, pubblicato nello scorso mese di maggio, costituisce un atto di indirizzo rivolto a tutti i vescovi del mondo, per richiamare la loro attenzione sia sulla responsabilità di vigilare perché nelle scuole sia assicurato l’insegnamento della religione cattolica, sia perché questo venga impartito conformemente ai principi contenuti in precedenti documenti della Santa Sede ed alle disposizioni canoniche. Dunque un  documento che certamente non esclude anche la realtà italiana,  ma che invero guarda più lontano: esso, infatti, si dirige precipuamente a quei Paesi nei quali l’insegnamento cattolico non è attualmente previsto, o nei quali si vuole riformarlo nel senso di un insegnamento ben diverso, di carattere storico, etnologico, sociologico, in una prospettiva comparatistica. A leggere i contenuti del documento, anzi, si può cogliere come esso  in sostanza ricalchi quanto da noi è ben chiaro a livello normativo e nella consolidata giurisprudenza di legittimità, e cioè: un insegnamento curricolare, non catechetico, aperto a tutti ancorché non obbligatorio, avente ad oggetto ciò che la Chiesa cattolica oggettivamente crede e professa, impartito di conseguenza da docenti che assicurino tale oggettività e che, quindi, godano della fiducia della competente autorità ecclesiastica.Due sono i punti sui quali solitamente, in alcuni Paesi stranieri così come in Italia, si incentrano le critiche alla cosiddetta "ora di religione": la garanzia della libertà religiosa e la tutela della laicità della scuola pubblica.Ora su questo, ancora una volta, occorre essere chiari. La libertà religiosa è certamente e pienamente garantita una volta che sia assicurata a tutti libertà di scelta dell’insegnamento. Ma la libertà religiosa sarebbe violata se ad alunni e genitori che lo chiedessero, tale insegnamento fosse negato: sia perché la scuola ha funzioni educative, per cui  la semplice omissione dell’insegnamento in questione significherebbe una scelta formativa non neutrale; sia perché la scuola è a servizio della società e non viceversa, sicché se la società domanda un preciso servizio educativo questo, almeno in uno Stato non ideologico, non può essere negato.Queste considerazioni fanno comprendere immediatamente anche l’infondatezza del richiamo alla laicità della scuola pubblica. Perché laicità significa imparzialità fra le varie posizioni, non significa nasconderne alcune; laicità nella scuola significa apertura ai vari saperi, mentre l’esclusione del sapere religioso significa parzialità, scelta ideologica, laicismo.Vengono alla mente le parole di un grande giurista e uomo di cultura, certamente non sospetto di clericalismo, qual era Arturo Carlo Jemolo, che proprio a proposito dell’insegnamento della religione nelle scuole scriveva: «Istruzione, e non indottrinamento; e poi libertà di scelta; ma non si è liberi di scegliere se si mostra il mazzo di carte in modo che se ne possa scorgere una sola».
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