mercoledì 16 giugno 2010
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Dopo quattro visite sui luoghi del disastro nel Golfo del Messico e dopo l’improvvido paragone tra la marea nera e lo choc dell’11 settembre che ne ha ulteriormente compromesso il livello dei consensi nei sondaggi, Barack Obama tutto poteva fare meno che perdere l’occasione di indicare agli Stati Uniti (soprattutto) e al mondo una strategia per il superamento della grande emergenza. Nella diretta televisiva alla nazione di ieri notte il presidente Usa ha così calato sul tavolo le carte che dovrebbero, nei suoi auspici, consentirgli di riguadagnare la fiducia degli americani, di tenere testa alle accuse più o meno velate dei grandi media, dal New York Times all’Economist passando per le principali reti televisive, e di porre le basi per una svolta in materia di politica energetica.Gli Usa, se nessuno metterà i bastoni tra le ruote all’Amministrazione in carica, non dovranno più essere l’insaziabile idrovora che aspira petrolio dai pozzi di terraferma, da quelli marini e dagli strati di sabbia ricchi di bitume. Se alle lobby petrolifere, che spesso hanno condizionato le scelte della Casa Bianca, non riusciranno manovre diversive (ma forse persino loro si daranno una regolata dopo la stratosferica bolletta che la BP pagherà, e anche su questo Obama è stato perentorio), l’America cercherà di lasciarsi alle spalle un modello di sviluppo ancorato solo all’«oro nero». Terminato il tempo della benzina a un dollaro a gallone, dovrà finire quello degli immensi sprechi di energia a buon mercato.Agli esordi del suo mandato, un taglio netto con la politica energetica dell’era Bush poteva configurarsi per il presidente democratico come una decisione prematura e per il Paese – ecologisti a parte – come una scelta traumatica, perché non temperata dalla gradualità. Così abbiamo visto la Casa Bianca dare via libera, tra le ire degli ambientalisti, ai progetti di nuove perforazioni anche in zone delicate per gli equilibri dell’ecosistema.Poi, ad aprile, è venuto il disastro del pozzo BP nel Golfo del Messico, laggiù al largo delle coste del profondo Sud. A poco più di un anno dall’insediamento, Obama ha dovuto fare i conti, nell’ordine, con l’impossibilità del contenimento della fuoriuscita di greggio, con le conseguenze dell’onda nera sull’economia degli Stati rivieraschi e sull’ambiente, con l’arroganza di una multinazionale che ora minimizzava, ora rassicurava ma era impotente a tappare la falla, con l’indignazione dell’opinione pubblica, la disperazione delle popolazioni locali, le accuse di inerzia o di carenza di leadership che i media, anche i più vicini all’Amministrazione, non hanno lesinato.Se rompere con la logica del "tutto petrolio" cara a Bush e al clan dei texani poteva apparire fino ad allora prematuro, il disastro della BP – non sembri argomentazione improntata a cinismo, a fronte di un evento di cui risentirà l’ecosistema planetario – ha finito con l’agevolare il superamento delle ultime remore, portando la Casa Bianca a maturare la volontà enunciata ieri notte di ridimensionare la dipendenza degli States dai combustibili fossili, petrolio in primis. In questo senso, un evento negativo e inatteso ha contribuito alla svolta: non solo il risanamento delle acque del Golfo diventa una priorità del governo federale, ma la politica energetica americana che si profila per il futuro sarà obbligatoriamente diversa. Meno oro nero e più fonti verdi rinnovabili. Del resto, la California sta già offrendo un valido esempio di riferimento.
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