venerdì 4 febbraio 2011
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Umberto Bossi aveva avvertito che «se non c’è il "sì", salta tutto». La Commissione bicamerale sul federalismo ha chiuso la partita esprimendo un pareggio, che tecnicamente vale un "no" al decreto attuativo sulla finanza municipale. Ma il governo ha deciso di assegnarsi un tempo supplementare, varando ugualmente un testo che ha recepito «in maniera assoluta il parere espresso dalla commissione Bilancio del Senato». Un blitz rumoroso come uno strappo, che ha confermato che ormai di procede di prova di forza in prova di forza e che ha fatto saltare i nervi alle opposizioni. Si vedrà se salterà qualcos’altro. E come l’accaduto verrà valutato dall’arbitro che sta al Quirinale. Per il leader della Lega si tratta comunque di un boccone amaro, avventurosamente zuccherato in extremis. Una pesante ipoteca e la solita ombra d’origine gravano ancora sul cruciale processo di riorganizzazione dello Stato che non riesce a compiersi in modo lineare e condiviso. Giorgio Napolitano aveva ricordato come il processo riformatore richieda passaggi successivi nei quali le diverse maggioranze che si avvicendano raccolgano il testimone di ciò che i predecessori sono riusciti a realizzare. In effetti, l’unica riforma approvata definitivamente è stata proprio quella del Titolo V della Costituzione – votata nel 2001, agli sgoccioli della XIII legislatura, con una ristrettissima maggioranza di centrosinistra – che rappresenta solo uno schema, peraltro foriero di una caterva di conflitti istituzionali se non viene articolata in modo da definire le competenze specifiche dei diversi livelli di governo. Quando però si è cercato di dare forma concreta a questa esigenza, prima con la cosiddetta devoluzione, poi con la riforma costituzionale organica approvata dal Parlamento ma bocciata dal referendum e ora con l’approccio fiscale, le tensioni politiche hanno sempre prevalso. Certificando ancora una volta l’impossibilità di svincolare dalle convenienze e dalle controversie sul governo questa come altre tematiche istituzionali. Eppure La Lega, che nella precedente legislatura di centrodestra si era caratterizzata per la pretesa di autosufficienza proprio sul tema federalista, questa volta aveva adottato una tattica diametralmente opposta, cercando il consenso delle forze di opposizione, un rapporto costruttivo con le rappresentanze delle autonomie locali e regionali, riconoscendo le solide ragioni di chi chiedeva di federare pure la solidarietà. Anche per questo, per gli sforzi che erano stati profusi in tale direzione a costo di mettere in forse alcuni capisaldi del provvedimento a cominciare dalla garanzia di neutralità fiscale, lo smacco per la Lega resta comunque particolarmente grave. Sarebbe miope, però, limitarsi ad osservare le conseguenze politiche dello strappo che comunque è stato formalizzato sulla formazione federalista. Il problema generale che viene in primo piano è quello sul quale si era concentrata l’ultimo richiamo del presidente Napolitano: l’effetto disastroso per qualsiasi processo riformatore del livello insopportabile raggiunto dalla contrapposizione politica e istituzionale. Se sarà possibile, in questo Parlamento, ritrovare le condizioni di un confronto non solamente e reciprocamente distruttivo o se prevarrà la speranza (o l’illusione) che queste condizioni si potranno verificare solo dopo una verifica elettorale, comunque traumatica, è difficile prevedere. Altre prove sono alle porte e il senso di responsabilità di cui tutti si vantano diventa invece merce piuttosto rara. Le riforme di cui ha bisogno l’Italia, sul terreno istituzionale ed economico, sono un dato di fatto, l’incapacità delle forze politiche di costruire un terreno di confronto fisiologico che ne permetta la realizzazione, anche. Non è, purtroppo una novità, ma nei tempi procellosi di questa fase di profonda crisi internazionale, non solo economica, questa contraddizione paralizzante rischia di far pagare prezzi assai pesanti.
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