martedì 15 giugno 2010
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Caro direttore,quando si dice l’ipocrisia dell’informazione. Tutti in prima linea, appassionatamente, a pronunciare il crucifige mediatico contro la governatrice dell’Arizona Jan Brewer, la quale – con una ferocia da fare impallidire la Lega – ha appena firmato una legge che autorizza la polizia locale a fermare chiunque sia "ragionevolmente sospettato" di essere clandestino e arrestarlo, qualora fosse sprovvisto di un valido documento d’identità. Nessuno, invece, che racconti di quello che succede nelle ambasciate italiane dei Paesi del Terzo Mondo, come le Filippine, dove purtroppo abita la mia fidanzata. Che ho conosciuto in Italia (dove è venuta come bread winner: quella che procura il pane alla famiglia) e che a gennaio è rientrata nel suo Paese d’origine, causa scadenza del permesso di soggiorno. Ci vediamo presto, le ho detto: e ho avviato le procedure per il visto turistico. Lettera di invito, fideiussione bancaria, assicurazione sanitaria, stato di famiglia e persino una lettera di garanzia personale del sindaco del Comune dove risiedo: mi sembrava sufficiente, per un visto turistico di tre mesi. Peccato che l’ambasciata, istruita dal governo ad ordire una vera e propria trappola burocratica, chieda ai locals (la persona straniera invitata) di produrre la cosiddetta proof of income: un documento dal quale risulti che lo straniero ha un reddito autonomo. Nel Terzo Mondo una vera e propria probatio diabolica. Un ostacolo praticamente insuperabile. E infatti, dopo circa un mese, via mail (dimenticavo: il sito dell’ambasciata è costellato di recapiti telefonici ai quali, purtroppo, nessuno risponde), arriva l’ineluttabile diniego, così motivato: «… non viene messa in discussione la Sua "buona fede", ma viene presa in considerazione, come richiesto dalla normativa vigente, la documentazione qui presentata dalla richiedente e che non è stata sufficiente a dirimere il rischio immigratorio». Avete capito? Poiché la mia fidanzata non ha un lavoro, l’ambasciata presume che non abbia motivi per rientrare in patria, una volta conclusa la sua vacanza con me. È come se vietassimo di vendere benzina solo perché qualcuno potrebbe farci una molotov. Siamo al grottesco: ci lamentiamo che il nostro Paese continua a perdere posizioni nella classifica dei Paesi più visitati e poi impediamo ai turisti di comprare il biglietto.Carlo Mantovani, Carpi (Mo)Questa sua storia, caro Mantovani, non è soltanto una vicenda di ordinaria burocrazia e di pignola ostinazione autolesionista sul piano turistico. È una nuova conferma del fatto che in questo nostro Paese troppo spesso si fa davvero di tutto per rendere impossibile la vita a chi vuol agire e vivere alla luce del sole, rispettando le regole. Ed è la testimonianza di quanto la cultura del sospetto abbia ormai messo radici in casa nostra: sei cittadina di un Paese in via di sviluppo, non hai un lavoro stabile e, dunque, secondo i nostri canoni sei una "spiantata"? Ebbene, ti catalogo come potenziale candidata all’immigrazione irregolare e ti sbarro le porte dell’Italia. Anche se sei la fidanzata di un cittadino del Bel Paese. Posso dirle che la cosa mi colpisce, ma purtroppo non mi meraviglia. Sono stato, infatti, testimone diretto di una storia non troppo diversa. Una coppia di coniugi sudamericani – in Italia con regolare permesso e lavori regolari, con casa regolarissimamente in affitto – ha avuto la gioia di un bambino. Hanno provato a far venire una nonna dal loro Paese d’origine per il battesimo. Il "no" della nostra rappresentanza diplomatica in loco è stato secco, granitico, insuperabile. Mi pare che la logica che presiede a tutto questo sia la stessa che ha ispirato la recente misura dichiaratamente contro le false invalidità (l’innalzamento dal 74 all’85 per cento della "soglia" per l’assegno): non riconoscere chi mente e chi dice la verità, ma creare ostacoli e ridurre drasticamente la platea degli aventi diritto (al sostegno piuttosto che a un visto d’ingresso turistico). Non mi stanco di ripeterlo: è una logica profondamente sbagliata ed è inevitabile causa d’ingiustizie.
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