venerdì 30 novembre 2012
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Cosa colpisce di più dell’ultima im­molazione in Tibet, avvenuta ieri? Il fatto che a darsi fuoco sia stato un giovane uomo di 31 anni? O che il to­tale dei suicidi salga a 89? O, ancora, il trend – assolutamente allarmante – di 27 immolazioni nel solo mese di no­vembre?Non ci dovrebbe essere bisogno di spingere sul pedale della retorica per conquistare l’attenzione del lettore. I fatti sono lì, parlano da soli. Analoga­mente, il popolo tibetano non dovreb­be essere costretto a gesti tanto ecla­tanti quanto sbagliati (una vita brucia­ta è una vita sprecata) per attirare lo sguardo del mondo. Eppure. Quanto sta accadendo dice che il Dalai Lama, da sempre contrario ai gesti estremi di protesta, sembra sem­pre più incapace di bloccarne il tragi­co ripetersi.Ma, ancor di più, mostra che all’indomani della chiusura del 18mo Congresso del Partito comunista cinese, la nuova dirigenza non sa (o non vuole) porre fino allo stillicidio di soprusi e violenze che da anni si per­petua in Tibet. È come se il problema non esistesse. Del resto, la delegazione tibetana al Congresso pare abbia pre­sentato un quadro della realtà total­mente falsato. Ma allora non si capisce perché solo pochi giorni prima le au­torità di Pechino avessero introdotto un sostanzioso premio economico per gli informatori in grado di dare notizie ai presunti 'candidati all’immolazio­ne'.La verità è che 'Tibet', in Cina, è una parola-tabù. Una ferita che sanguina da tempo. Dal lontano1959. Di recen­te il mondo è tornato ad accorgersene nel marzo 2008, quando, alla vigilia del­le Olimpiadi di Pechino, i tibetani ave­vano provato a far udire la loro voce con una grande manifestazione di pro­testa, purtroppo repressa nel sangue. Da allora la stretta di Pechino sul Tibet si è fatta, se possibile, ancora più pres­sante. Solo pochi giorni fa, il 26 no­vembre, migliaia di studenti di una scuola di medicina nell’area tibetana del Qinghai hanno protestato contro le classi di 'educazione patriottica' e un questionario politico imposti dal regi­me agli studenti tibetani. La polizia è intervenuta: una ventina di vittime, al­cune delle quali in gravi condizioni. Ma se riavvolgiamo il nastro degli ulti­mi mesi, scopriremo che il 6 gennaio e­ra ricominciato il rito delle auto-im­molazioni, in quel caso nei pressi del monastero di Kirti. Proprio lì, nell’ot­tobre 2011, si uccise, dandosi fuoco, la prima donna, una monaca.Non è un caso, quindi, che dalla primavera scor­sa i monasteri siano finiti nel mirino dei capi di Pechino: esautorati i mona­ci, i 1.800 templi sono stati posti sotto controllo diretto di funzionari del go­verno. Una scelta a dir poco bizzarra, per un regime che si fregia di essere a­teo. E ora, cosa accadrà? «Le proteste sono destinate a continuare nel tempo fino a quando i leader mondiali continue­ranno a chiudere gli occhi davanti alla situazione disperata in cui versa il Ti­bet », ha dichiarato un analista. Il punto è proprio questo: o la comu­nità internazionale prende finalmente coscienza che in Tibet è in atto un’au­tentica colonizzazione che violenta le tradizioni culturali e religiose di quel­la gente, penalizzandola socialmente, oppure Pechino continuerà indistur­bata nella sua strategia di assimilazio­ne forzata di un popolo e di tutti i suoi tesori.Certo, da quando la Cina è di­ventata la seconda economia del mon­do è sempre più difficile pestare i pie­di in nome dei diritti. Ma tanto gli Usa e l’Europa quanto i Paesi emergenti (i famosi Bric che da 'stelle' dell’econo­mia puntano ad entrare da protagoni­sti nel salotto buono della politica mondiale), dovrebbero trovare il co­raggio di chiedere alla Cina un’auten­tica inversione a U sulla via del Tibet.
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