mercoledì 8 gennaio 2014
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Abbiamo appena vissuto il giorno dell’Epifania, che significa Apparizione, il giorno in cui qualcosa di certo si manifesta, rendendo visibile l’invisibile. Il giorno del trionfo di chi sa guardare e credere. E trionfali le parole con cui papa Francesco celebra e insieme esorta: non accontentiamoci di una «vita mediocre», da «piccolo cabotaggio», impariamo a guardare il cielo, ad avere «desideri grandi». Impariamo a non farci ingannare dalle «sirene» della «mondanità», custodiamo il senso della vita e la fede. Le parole di Francesco dell’altroieri non sono soltanto un’esortazione a vivere nella fede. Sono questo ma qualcosa di più: vivere ad alta temperatura, non farsi ingannare, illudere, ma anche deprimere dai valori deboli e transitori: è un messaggio di ventosità paolina e potenza romantica, valido per ogni uomo, anche non credente. Tipo il «Vola alta, parola!» di Mario Luzi.O una risposta ventosa, poetica, possente ai demoni del nulla, oggi vestiti da minimalismi depressivi: «And, out of nothing,/ a breathing», l’intraducibile (per il soffio che sente chi conosce un po’ l’inglese) verso di Ezra Pound: «E, dal nulla,/ un respiro». Lo spirito, pacificante e ardente, che con potenza inaudita si  manifesta e ci gonfia il petto. Non palloni gonfiati, ma uomini gonfi di pneuma, traboccanti all’improvviso di anima. Papa Francesco si rivolge allo spirito dell’uomo, affinché questo spirito si riconosca figlio di un  superiore, generale, sovrumano Spirito: non sta invitando solo a credere, ma sta esortando ogni uomo a percepire la pienezza della vita. La sua condanna del male, della guerra, la sua sofferenza per la sofferenza, sono inequivocabili, e, sinceramente, semplicemente umane: nessun uomo normale può tollerare gli scempi che avvengono quotidianamente nel mondo, non è necessario essere un Francesco. Ma essere Francesco significa, in questo momento, simultaneamente al grido di dolore, intonare l’inno alla gioia e alla vita, cantare Beethoven mentre piangi per le vittime dei massacri, guardare in alto, la cupola della Sistina, il confine con la volta stellata. Intonato a quanto disse e fece Benedetto, lì, sotto la cupola confinante con il cielo, chiamando a sé gli artisti: ricordo bene, ero presente, il senso principale del suo intervento: credere nell’arte, nella poesia, significa credere nello Spirito. Devozione alla Bellezza non significa estetismo, ma aspirazione alla grandezza del creato. Due casi in cui due pontefici invitano a pensare alto, a non vivere a bassa temperatura, a gonfiare i polmoni, a essere fieri della vita, nonostante tutto. Ad alzare il capo verso la volta celeste come l’umile e stracciato “incantato della stella” nel presepe, come i sapienti Re Magi uniti a lui nella capacità umana di ascendere e trascendere. Il richiamo esplicito, forte, ai Re Magi è nella scia sapienziale di Benedetto: i depositari della sapienza antica, e custodi di un tesoro conoscitivo mai eguagliato (storicamente sacerdoti zoroastriani, che credevano in un prossimo possibile dio che si sarebbe fatto uomo) sanno riconoscere, nella stella, il Dio umilmente nascente nella grotta. Come il pastore sa farsi incantare dalla stella. Il povero sporco analfabeta e i sapienti hanno alzato lo sguardo, umiltà e conoscenza coincidono. Questo ha recitato, dal palcoscenico più palpitante del mondo d’Occidente, Papa Francesco, il giorno dell’Epifania. Proseguendo l’inno alla Bellezza e alla Gloria di Benedetto, colui che gli ha passato il testimone.
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