giovedì 27 dicembre 2012
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Come cembali da accordare e con il viso felicemente smarrito dei giorni della gioia. Con i vestiti tipici della festa: una giacca riordinata, un paio di pantaloni appena cuciti, una camicia bene abbottonata. Spaesati a festeggiare dopo anni d’inquietudine e di rimorsi mal digeriti. Sono uomini dalle voci rauche e stonate, lontane dalla perfezione dei righi musicali e abituate alle urla di strada. Sui loro volti c’è la stanchezza di anni di galera, le ferite di battaglie perdute e di vite strappate, il tremore di una vita giocata tra sbarre e cemento.Eppure la notte di Natale il loro sguardo è stato una riedizione perfetta dello sguardo dei pastori di Betlemme. Perché anche quest’anno Dio ha deciso una scommessa d’amore su di loro; a oltranza. Mettendo lo sguardo sui bassifondi della storia – questo sono le galere – e in tuguri di celle più simili a celle mortuarie che a sale parto, dove l’odore della miseria sovrasta l’aroma lieve dei sogni. È così che una cella di galera diviene l’incrocio di due strade: quella che riconduce il popolo via da Babele, dal paese dell’arroganza e delle torri incompiute, e quella che riporta Gesù da Betlemme. Per Lui e per loro – per il Bambino di Betlemme e per le persone detenute – «non c’è posto nell’albergo» (Mt 1,23).Forse per questo, anche quest’anno, il Figlio nascerà tra le celle delle patrie galere, là dove c’è da ricomporre i cocci di esistenze frantumate e c’è da farlo con l’emozione, cantata da Isaia profeta, di riparare brecce e ristrutturare case cadenti. A Cristo, infine, rimarrà solo quel poco di legno e di ferro che gli basterà per morire inchiodato alla croce. È il pizzico di malinconia che serpeggia nei vangeli dell’infanzia, abitati anche da Erode, cioè dal patriarca di tutti coloro che scambiano la giustizia con la paura e la vendetta, magari fingendosi cercatori della verità più profonda dell’uomo. Sì, anche dentro i 'centri d’abbrutimento statali', quali sono ormai le nostre carceri, quest’anno Gesù nasce: perché essere guardati da Lui è un’esperienza di Verità, come successe sulle sponde del lago di Genesaret o nelle pieghe tumultuose della donna di Samaria: «Mi ha detto tutto ciò che ho fatto» (Gv 4,39). Un percorso di verità iniziato quando uno sconosciuto Viandante di Galilea che era Dio si sporcò di giorni, ore e secondi.L’annuncio, dato dietro alle sbarre, tiene il suono malinconico e festoso delle zampogne dei pastori: «Vi annuncio una grande gioia: è nato per voi il Salvatore». Da quel giorno la storia di quaggiù, in qualunque caos l’uomo abiti, può non essere solo una stramaledetta pena dopo l’altra, ma l’occasione di ritrovare la somiglianza divina perduta. Dalla grotta dell’evento, Magi se ne torneranno a casa «per un’altra strada» (Mt 3,56). E per un’altra strada, forse, un giorno faranno ritorno a casa pure i falliti della storia. Perché – come scrisse Joshua, detenuto del carcere di Nashville – «il mio cuore batte per le stesse cose per cui battono i cuori degli altri uomini». 
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