La chiusura della presidente del Consiglio a una nuova legge sulla cittadinanza ai figli dei migranti nati e cresciuti in Italia non è una sorpresa. Da un punto di vista della comunicazione politica, le parole pronunciate nella conferenza stampa di giovedì fanno parte di una strategia pubblica che si spiega facilmente: una posizione rigorosa, quando non intollerante, sul tema delle migrazioni sta pagando dal punto di vista dei consensi e, nonostante il coraggioso strappo estivo di Forza Italia sul tema, è comprensibile che Giorgia Meloni non voglia mettere, come ha detto, «altra carne al fuoco» dentro una coalizione di destra-centro sempre più a trazione Fratelli d’Italia. Il problema riguarda però le argomentazioni addotte per giustificare questo immobilismo.
È infatti un errore e insieme una strumentalizzazione parlare, com’è stato fatto in quella sede, di record di acquisizioni della cittadinanza negli ultimi anni, avvenuto grazie alle attuali norme. Lo aveva sottolineato Matteo Salvini, l’ha ripetuto due giorni fa la premier, spiegando così il mantenimento dello status quo. È un errore perché i 213.716 “nuovi italiani” (il primato di cui si parla), censiti nell’ultimo rapporto della Fondazione Ismu relativo al 2022, in realtà sono già vecchi: alle spalle hanno infatti iter legali lunghi 15-16 anni, che li fanno appartenere all’onda lunga delle migrazioni avvenute a cavallo tra gli anni Novanta e il primo decennio del nuovo secolo. È anche una strumentalizzazione, perché di fatto questo presunto alibi impedisce alla politica di guardare dritto negli occhi le nuove generazioni di ragazzi stranieri, che da almeno 15 anni a questa parte, grazie anche all’impegno della società civile e del mondo cattolico, rivendicano l’appartenenza a questo Paese come un diritto. Di questo passo, invece, si rischia di creare altri “invisibili”.
Più interessante è stato il riferimento arrivato sulla migrazione come fenomeno familiare: si può arrivare da soli in un Paese, ma ci si può inserire soltanto se si stabilisce una relazione, meglio ancora se è possibile ritrovare, col passare del tempo, gli affetti che si sono lasciati in patria. Qui però si misura la distanza tra parole e fatti. Ha sorpreso non poco in questo senso la decisione di attuare recentemente una stretta sui ricongiungimenti familiari: se ricomporre un nucleo familiare nel nostro Paese è considerato strategico, perché allora raddoppiare l’obbligo di residenza per chi fa la domanda a chi è già sul nostro territorio, passando da uno a due anni? Perché non prevedere per chi è già presente qui invece uno scenario di stabilizzazione, anche domestica, utile per accelerare i processi di integrazione e per impedire ulteriori casi di ghettizzazione?
La risposta in tutti questi casi dovrebbe partire proprio dalla considerazione che la legge 91 del 1992 non è più adatta ai tempi che corrono: è cambiato il contesto, è cambiato il Paese, è cambiata la storia. Allora il fenomeno delle migrazioni era agli albori, e quella prima cornice normativa era tanto necessaria quanto sufficiente. Oggi al Paese serve un cambio di passo, capace di intercettare i cambiamenti demografici e sociali in arrivo dal mondo della scuola e dello sport, ad esempio, cambiamenti che stanno delineando da tempo un volto nuovo di comunità. Invece al momento tutto è fermo: il tema dell’immigrazione è infatti stato ridotto a materia d’ordine pubblico, tra sbarchi da cancellare dagli occhi, nuove “Albanie” da costruire con l’avallo dell’Europa, esami del Dna da fare in particolare agli stranieri che delinquono. È un racconto ansiogeno, che non potrà durare a lungo perché incapace di intercettare la freschezza di un processo già in atto. Un milione di ragazzi permarrà così in un’anacronistica lista d’attesa: tra di loro, molti hanno promosso la mobilitazione per il referendum al vaglio ora della Consulta, che punta a ridurre da 10 a 5 anni il tempo di permanenza necessario in Italia per diventare italiani. La cittadinanza resta infatti tra i pochi temi stimolanti agli occhi di tanti giovani allergici alle letture ideologiche o politicizzate. Occuparsene sarebbe per altro un modo per riaccendere la partecipazione alla vita pubblica, un valore che abbiamo perso da tempo e che per il bene dell’Italia – della patria – va recuperato il più presto possibile.