sabato 28 gennaio 2023
Un lettore lamenta la differente rivalutazione della soglia d’accesso rispetto all’assegno per gli invalidi, che rischia così di non essere più percepibile. Colpa di uno sfasamento temporale
Limiti di reddito e importo delle pensioni
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Gentile direttore,
mi rivolgo al vostro giornale sempre pronto a perorare la causa dei più deboli e non solo a parlarne come fanno tanti altri. Anche quest’anno, infatti, si ripropone una questione relativa all’adeguamento del limite di reddito per gli invalidi civili assoluti, ai fini della fruizione dell’assegno di invalidità, in aggiunta alla pensione, come già avvenuto nel 2022. È bene rimarcare che stiamo parlando di invalidi assoluti con solo reddito da pensione che, per effetto della perequazione generale, possono vedere di fatto i loro proventi diminuire drasticamente. Ciò è quanto emerge dalla lettura della circolare Inps n. 135 del 22 dicembre 2022 che, mentre stabilisce per le pensioni al di sotto della soglia di quattro volte il minimo (pari a 2.101 euro mensili) una rivalutazione del 7,3% , per l’adeguamento dei limiti di reddito invece prevede la rivalutazione al 5,1%. Ben 2,2% punti percentuali in meno. In base a questa norma il limite annuo è stato portato a 17.920 euro annui contro i 17.050 dell’anno precedente. Per fare un esempio pratico, basti pensare a un pensionato invalido assoluto con soli redditi da pensione pari a 17.000 annui (al di sotto del limite di reddito indicato nel 2022) che fruiva dell’assegno di invalidità di 288 euro mensili, pari a oltre 3.000 euro in più. Questa persona, per effetto della perequazione del 7,3%, vedrà la sua pensione aumentare di circa 1.200 euro annui ma nel frattempo ne perderà oltre 3.000 perché il limite di reddito non è stato rivalutato della stessa percentuale. Non è facile sapere quanti pensionati di questo tipo vengono danneggiati, ma sicuramente sono in numero superiore a quelli già colpiti dalla medesima norma dell’anno precedente. Con il tempo se non si corregge la norma, sarà sempre maggiore la platea degli esclusi. Della questione l’anno scorso, sono stati interessati non solo i sindacati ma anche i Comitati Inps. Non solo, di questa anomalia e ingiustizia è a conoscenza il Presidente dell’Inps, la Direzione generale Inps, i rappresentanti del comitato di controllo dell’Inps e anche diversi esponenti politici che a oggi non danno segno di reazione né c’è alcuna modifica: errare humanum est, perseverare diabolicum! Grazie per l'attenzione e cordiali saluti.

Fabrizio Carta Cagliari

Lei evidenzia un caso-limite, gentile signor Carta, la cui ricorrenza non è facile da stimare, ma che certamente esiste. Il direttore mi chiede di risponderle e posso dirle che la questione nasce dall’applicazione di due indici diversi di rivalutazione degli importi, o meglio di uno stesso indice di riferimento – quello Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (Foi), senza tabacchi – ma con un significativo sfasamento temporale. Mentre, infatti, per gli importi della pensione si calcola la differenza tra gennaio e dicembre dell’anno precedente (di qui il +7,3% registrato tra 2021 e 2022, dopo la fissazione al +1,9% nel 2020-2021), per i limiti di reddito si fa riferimento “alla variazione percentuale verificatasi nell’indice Foi senza tabacchi, nel periodo compreso tra agosto e luglio del biennio precedente alla rivalutazione stessa”, come ci ha confermato l’Inps. La rivalutazione applicata nel 2023 è stata così del +5,1%. La sensibile differenza delle due percentuali – ecco spiegato l’arcano – nasce dal fatto che i prezzi al consumo sono aumentati in particolare nel secondo semestre dello scorso anno. L’anno venturo, dunque, stante il previsto calo dell’inflazione nei prossimi mesi, è probabile che si verifichi il caso contrario, con la rivalutazione dei limiti di reddito maggiore rispetto a quella degli importi e così la situazione dovrebbe riequilibrarsi. Certo sarebbe preferibile uniformare i periodi temporali di riferimento, in maniera da evitare del tutto possibili casi come quelli da lei evidenziati. E che sono simili a ciò che accade per il cosiddetto fiscal drag nei periodi di alta inflazione. Quando cioè aumenta la pressione fiscale progressiva su redditi cresciuti solo nominalmente, senza che vi sia un incremento di potere d’acquisto. O, peggio, quando gli stipendi rimangono inalterati per il mancato rinnovo dei contratti nazionali, con perdite ancora maggiori del loro valore reale. E questo, purtroppo, è oggi il caso di sette milioni di lavoratori dipendenti.

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