L'identità di un popolo non può alimentare «fabbriche» dell'odio
venerdì 27 gennaio 2017

Caro direttore,
in questi giorni ho assistito ad alcune trasmissioni televisive sul problema dei profughi in Ungheria. Mentre ascoltavo le dichiarazioni molto dure ed intransigenti dei governanti, ho notato sullo sfondo il bellissimo stemma della nazione ungherese, sovrastato dalla corona di Re santo Stefano. Costui fu un re cristiano che governò l’Ungheria mille anni fa circa. I suoi genitori lo chiamarono così in onore del primo martire cristiano, quello Stefano che, secondo la Bibbia, venne incaricato dagli apostoli di aiutare le vedove e servire alle mense dei poveri. Per la sua fede cristiana Stefano venne lapidato. A me pare che il trattamento che quella nazione riserva oggi ai profughi sia in netto contrasto con le sue origini e tradizioni cristiane. Il popolo ungherese è sempre stato fiero e coraggioso, ha resistito con dignità all’invasione di potenti eserciti stranieri (basti pensare alle vicende di Budapest nel 1956), possibile che oggi abbiano paura di qualche migliaio di poveri, disarmati e infreddoliti? Non credo che santo Stefano abbia perduto la sua identità cristiana servendo i poveri perché, se la nostra fede ha un fondamento saldo in Gesù, la nostra identità si rafforza nel dedicare il nostro tempo agli altri. E non credo neppure che la crisi economica delle nazioni europee sia colpa dei poveri, siano essi extracomunitari o cittadini europei. Semmai le responsabilità andrebbero cercate nell’incapacità dei governi a sviluppare politiche per il lavoro e per il sostegno delle famiglie. Riflettano dunque i governanti ungheresi ed europei in generale: a volte nella storia ci sono situazioni difficili da affrontare ma è proprio la saggezza dei governanti che può trasformare le circostanze sfavorevoli in occasioni propizie per costruire la pace e l’amicizia tra i popoli. Inoltre costoro sappiano che il Signore non si compiace della nazione che disprezza il povero.

Carlo Vallenzasca - Seriate (Bg)

La penso come lei, caro signor Vallenzasca, non è certo un mistero. E sono un fautore di regole umane, chiare e salde per il governo delle migrazioni perché credo – come lei e, grazie a Dio, come tantissimi altri – che il soccorso e l’accoglienza del povero siano un dovere cristiano e civile. I fatti d’Ungheria, dell’Ungheria dell’arcigno governo di Viktor Orban che ha il merito di amare e difendere la fragile vita nascente ungherese, ma porta il marchio di non amare e difendere qualunque altra fragile vita extracomunitaria, si iscrivono in quelli di un’Europa auto-paralizzatasi tra odioso rigore (proprio come in economia) e paura di fronte al fenomeno delle migrazioni forzate da Africa e Asia. E fanno il paio, oggi, al cospetto dell’opinione pubblica mondiale, con quelli persino più dirompenti e – visto che coinvolgono la prima potenza mondiale – più esemplari d’America, di un’America che non è soltanto gli Usa e che appare – in questi giorni – più che mai spaccata in due (Nord contro Sud) dalle scelte e dagli annunci del nuovo capo della Casa Bianca Donald Trump. Assieme, questi e quei fatti, ci dimostrano quali rischi di disumanità si corrano e, purtroppo, si realizzino quando si pretende di brandire l’identità o l’interesse nazionale come un’arma contro gli altri, contro gli «stranieri». Lo sapevamo già, perché la storia è scritta anche col sangue, il dolore e gli sfruttamenti che azioni e ideologie razziste e xenofobe hanno provocato, ma forse siamo arrivati a pensare che questa ereditata saggezza fosse ormai solo retorica... Certo le ingiustizie, le fatiche a comprendersi e a cooperare, le spaccature non cominciano certo oggi e non si palesano solo in Ungheria e sorprendentemente nel «più libero Paese del mondo», gli Stati Uniti d’America. L’Ungheria non è infatti sola nell’attuare aspre politiche xenofobe (coi poveri non con i ricchi, come abbiamo documentato qui e commentato qui ). E sulle pagine di “Avvenire” abbiamo dato conto, negli anni scorsi, di come anche sotto l’amministrazione Obama il «muro» tra Usa e Messico fosse una realtà amara e le espulsioni di massa abbiano riguardato circa due milioni e mezzo di latinos. Eppure è realtà che oggi, per volere di due leader politici e per effetto degli slogan e delle idee-guida che essi mettono in circolazione, a Budapest e Washington si stanno installando a partire dai richiami identitari a altrettante “fabbriche” del risentimento e persino dell’odio. Far finta di non vedere è impossibile... Mi auguro che il «popolo di santo Stefano» sappia ritrovare il senso autentico della fedeltà alle radici cristiane. Così come spero, nonostante il duro avvio della stagione di Trump (non basta tagliare i fondi all’aborto d’esportazione per essere paladini della integrale difesa della vita umana...), che l’America non si riduca a feroce e miope gendarme di se stessa e del proprio tornaconto.


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