giovedì 31 marzo 2011
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Dopo l’iniziale e pressoché corale sostegno all’«intervento umanitario» in Libia, dal mondo cattolico sono provenuti, a più riprese, alcuni segnali di inquietudine. Non sono rimaste senza eco le riflessioni del cardinale Bagnasco, le preoccupazioni del Vicario apostolico di Tripoli, le aperte prese di distanza di intellettuali e di gruppi pacifisti cristiani. Si moltiplicano, dunque, gli interrogativi su questa nuova «guerra di Libia» che, per l’Italia, si verifica esattamente a un secolo dall’altra: per quest’ultima è ormai da tempo in atto un processo di demitizzazione di un’impresa rivelatasi cruda espressione di un colonialismo, quello italiano, forse meno spietato di quello di altri Paesi («italiani brava gente»…) ma tutt’altro che esente – come la storiografia ha ampiamente dimostrato – da brutalità, nefandezze, prevaricazioni. È augurabile che tutto questo sia solo passato, un passato che non ritorna.Due sono i punti critici di questa vicenda, per quanto si può valutare allo stato attuale delle cose: e ad essi corrispondono altrettanto interrogativi. La prima domanda riguarda il carico di morte che, inevitabilmente, accompagna l’azione in atto, autorizzata dall’Onu, e motivata col dovere di scongiurare le vittime civili della repressione ordinata dal regime gheddafiano: non vi è dubbio che, per quanto "intelligenti", le bombe non possono avere millimetrica precisione e dunque occorre mettere in conto un numero, forse non marginale, di vittime civili (il loro numero non lo si conoscerà mai). Ma anche limitatamente alle vittime militari, si tratta pur sempre (cosa che certi entusiasmi bellicisti sembrano del tutto dimenticare) di persone, di volti, spesso di padri di famiglia, frequentemente di "povera gente" illusa (com’è capitato, anche in altri tempi, in Germania e in Italia) dal fascino del dittatore di turno o indotta al "mestiere delle armi" dalla corruzione del denaro, o anche soltanto dall’istinto di sopravvivenza. Nessuna pietà, dunque, per i militari e i loro fiancheggiatori? Il secondo interrogativo concerne questo particolare tipo di guerra fra diseguali: di qui una raffinatissima tecnologia di morte, di là la rassegnazione alla morte che piove dal cielo. Vengono alla mente le riserve, le proteste, talora le denunzie dei teologi medievali sull’intrinseca immoralità di una morte – quella procurata dalle prime armi da fuoco – che "veniva da lontano", che non consentiva più il "faccia a faccia" fra i contendenti, che perdeva la sua antica natura di "duello" fra uomini che potevano guardarsi negli occhi e sapevano, nello stesso tempo, di potere uccidere e di potere essere uccisi. Questa guerra dall’alto è invece impietosamente impari: da una parte vi è chi rischia tutto, dall’altra chi non rischia nulla e può uccidere senza timore alcuno di essere ucciso. Vi è da domandarsi se il pressoché unanime consenso dell’opinione pubblica vi sarebbe se, condotta la guerra ad armi pari, vi fossero morti da una parte e dall’altra. Ora, invece, i morti sembrano non più contare. Ve ne è abbastanza, dunque, per domandarsi se non sia venuto il tempo di stabilire una tregua, di premere perché si avviino negoziati, dando spazio a una mediazione, che sarà comunque necessaria, non potendosi ragionevolmente ipotizzare il permanere di una guerra civile che rischia di procurare, nel tempo lungo, un gran numero di morti: magari non caduti in battaglia e però certamente vittime delle miserie che la guerra sempre produce. In questa azione per la mediazione – a favore della quale si è autorevolmente espresso, a più riprese, lo stesso papa Benedetto – i credenti dovranno essere in prima fila. Che tutte le armi tacciano e, finalmente, la parola passi alla mitezza della ragione.
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