A Roma non c’è mafia ma illecito sistemico che «spuzza»
venerdì 21 luglio 2017

Delinquenti associati, e anche se non mafiosi, pericolosi e meritevoli di pene severe. Vent’anni di galera al capofila, tre secoli fra tutti i 41 condannati; con la cernita scrupolosa di vagliare posizione su posizione, per ciascun imputato, attraverso le risultanze delle migliaia e migliaia di pagine del maxiprocesso, e di decifrare negli atti, nella condotta, nelle intese, nelle scelte delittuose perpetrate le corrispondenze agli stampi tipizzati dalla legge penale. E cinque assolti. Non è mafia, dice la sentenza. E vien voglia ora di capire di più circa la differenza fra mafia e non, parola che in modo cangiante decliniamo dentro gli annali della storia, o dentro le categorie della sociologia, o delle contaminazioni politiche, o delle elaborazioni letterarie, o più crudamente dentro le cronache insanguinate di cui in questi stessi giorni anniversari facciamo memoria.

Capire la differenza fra una banda criminale comune e la Piovra, introdotta nel Codice a partire dal 1982, quando fu assassinato il generale Dalla Chiesa. Il nocciolo sta in tre parole: intimidazione, assoggettamento, omertà. Figure che si attagliano a situazioni in cui si produce un clima di paura, di servilismo, di riduzione al silenzio. Anche se la 'mafiosità', come la intendiamo dal lato etico-sociale, può inventarsi ogni giorno nuove forme, usando l’astuzia e la rete di complicità in luogo della violenza, la corruzione occulta che non fa rumore, giuridicamente il teorema dell’accusa mafiosa non è stato accolto dai giudici. Dunque a Roma non c’è mafia. Ma se non c’è mafia c’è marcio.

Il marciume pesante e pestifero è stato elencato nelle imputazioni (corruzione, estorsione, usura, turbativa d’asta, riciclaggio, associazione criminale) e nelle condanne. Poiché le condanne non sono definitive, ci è doverosa la riserva di non ritenere colpevole nessuno fino al giudicato. Però la lezione che emerge dalla mole colossale degli atti di indagine è impressionante per l’aspetto sistemico dei traffici illeciti. È una sorta di visione del mondo che non si cura della legalità; un mondo stratificato secondo il potere («ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi in mezzo», è la frase captata in una intercettazione, e letta dall’accusa come il proposito di allacciare il mondo politico di sopra e il mondo criminale di sotto). È la filosofia della corruzione come investimento produttivo («la mucca, se non mangia non può essere munta»).

È l’immagine rivoltante del profitto raschiato dentro i canali del soccorso ai bisognosi, il denaro dell’estrema misericordia («hai idea del guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno»). Ci chiediamo ora se la sentenza ci rifà puliti; e se poi saranno le sentenze a ripulire le stalle d’Italia, come Ercole le stalle di Augia. Serve un impegno giudiziario muscolare? Già provato, con Tangentopoli, e ogni volta siamo tornati daccapo. Serve una modifica dei codici, un regime più stretto e vigilato degli appalti, barriere, certificazioni, controlli, balzelli, pene aspre, multe, galere? Già fatto, più e più volte, fino a farne un ginepraio scoraggiante per gli onesti ed eccitante per la fantasia degli astuti e degli amici degli amici. Forse è il momento di capire che la radice della corruzione è nell’anima. Papa Francesco ha detto che la corruzione «spuzza».

Probabilmente ha un senso più ampio e profondo che non il reato del codice; vuol dire, penso, che un’anima che fa del peccato un’abitudine non ne avverte più il rimorso né cerca purificazione perché sta marcendo. Nessuno è senza peccato, ma la corruzione è altro, è «quando il peccato entra, entra, entra nella coscienza e non lascia posto neanche per l’aria». Ora, se c’è qualcosa, nel mondo della legge civile, che assomiglia a questa asfissia, è proprio la corruzione, che è il tradimento della funzione del potere per fini immondi, una specie di simonia laica, di fronte alla fedeltà giurata e all’articolo 98 della Costituzione.

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