sabato 3 gennaio 2015
Cristiani e musulmani sciiti convivono malgrado conflitti e tensioni. L’invasione israeliana del 2006 aveva costretto molti a lasciare le proprie case. Ora la pace è garantita dalla presenza di forze internazionali. (Ilaria Sesana)
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​«Così come i pesci non possono vivere lontano dall’acqua, noi non possiamo vivere lontano da Caana». Majda porta al collo un piccolo crocifisso d’oro. Nel 2006 è stata costretta a scappare dalla sua casa, dalla sua città, durante l’invasione israeliana del sud del Libano. Ma non appena le forze di Tsahal hanno lasciato la regione, Majda è tornata nella sua casa. L’anno successivo, assieme a una decina di altre donne cristiane, ha dato vita all’associazione "Sacra Famiglia". «Siamo donne che aiutano altre donne», racconta con orgoglio. La più giovane ha 24 anni, la più anziana 64, girano per le case di Caana e per i villaggi circostanti, bussando a tutte le porte dove sanno che vive una famiglia in difficoltà. «Vogliamo fare in modo che queste donne possano contribuire al bilancio domestico, attraverso la lavorazione di piccoli oggetti artigianali che poi vengono messi in vendita», spiega Majida, mentre espone su un tavolo le produzioni delle sue donne: gioielli, creazioni all’uncinetto, rosari e candele.
Non si parla di politica, né di religione tra le donne di Caana: mamme e nonne di fede cristiana lavorano assieme alle ragazze sciite, chiacchierando con loro del più e del meno. Una scena inimmaginabile in tanti luoghi del Medioriente, ma non a Caana: unica città dove, persino durante lo spietato conflitto degli anni Settanta e Ottanta, non ci sono stati problemi tra le due comunità. Mohammad Jafar, segretario del municipio, musulmano, mostra con fierezza la bandiera cittadina: una croce e una mezzaluna azzurre su fondo bianco. «Vivere fianco a fianco dei nostri concittadini cristiani per noi è una ricchezza», sottolinea più volte.
Eppure, anche qui l’esodo dei cristiani sembra inevitabile: negli anni Sessanta rappresentavano il 50% della popolazione totale, oggi si sono praticamente dimezzati. «Purtroppo molti se ne sono andati via, all’estero», dice Jafar. Ma violenze e persecuzioni non c’entrano affatto: «È solo colpa della crisi economica – rimarca –. Noi abbiamo fatto e facciamo di tutto per fare in modo che i nostri concittadini cristiani restino a vivere a Caana». Negli anni Ottanta venne persino emanato un decreto della municipalità per vietare ai cristiani di vendere le proprie terre e i beni immobili pur di scoraggiare le loro partenze. «Ancora oggi, quando veniamo a sapere che un nostro concittadino cristiano vuole lasciare Caana, andiamo a parlare con lui, per capire quali sono le ragioni che lo spingono a partire, e proviamo a fargli cambiare idea», afferma Jafar. Uno sforzo che può poco contro le difficoltà economiche e la mancanza di lavoro che segnano il sud del Libano. A rendere più complicata la situazione, la presenza di circa duemila profughi siriani sul territorio della municipalità. Vivono in condizioni estremamente difficili: abitano in case abbandonate, ripari di fortuna, capanni senza elettricità né acqua corrente. «Facciamo il possibile per aiutarli, un paio di settimane fa abbiamo organizzato un gruppo di medici e abbiamo vaccinato tutti i bambini siriani», conclude il segretario municipale.
Lo sforzo di tutti gli attori che si muovono nella regione, tra cui il contingente italiano di Unifil, ha come obiettivo quello di migliorare il più possibile le condizioni di vita della popolazione locale. Un esempio è l’asilo cittadino: una piccola struttura a pochi passi dal municipio che accoglie bambini cristiani e musulmani. «Grazie ai soldati italiani abbiamo avuto donazioni di materiale didattico – spiega Jawa Her Haddad, insegnante e presidente dell’associazione "Donne di Caana" –. Inoltre, ci hanno aiutato a rifare la copertura dei locali e tra poco inizieranno altri lavori di ristrutturazione dell’asilo».
«Uno dei tre pilastri fondamentali della Risoluzione Onu che regola la missione è l’assistenza alla popolazione civile – dice il generale Stefano Del Col, comandante del Sector West di Unifil –. Il contingente italiano è impegnato in diverse attività, tra cui l’assistenza medica e veterinaria. Ma qui uno dei problemi più sentiti è la mancanza d’acqua». Non a caso, lo scavo di pozzi e l’installazione di pompe rappresenta una buona fetta delle attività Cimic (Cooperazione civile e militare) realizzati dal contingente italiano Unifil. Complessivamente, nel corso del 2014, sono stati realizzati 62 progetti per un totale di un milione 600mila euro, mentre dal 2007 a oggi si arriva a un totale di 9,5 milioni di euro. A chiudere l’anno è stato l’avvio di una prima tranche di lavori per la ristrutturazione dell’antico castello di Shama, eretto dai crociati nell’XI secolo e oggi ridotto a un cumulo di macerie. «I primi lavori sono partiti dicembre e dureranno tre mesi. La fase iniziale sarà a carico del contingente italiano, per un totale di 70mila euro», illustra il maggiore Giuseppe Manzi, referente attività Cimic per il Sector West. I restanti 700mila euro per il completamento dei lavori sono invece a carico del ministero degli Affari esteri.
L’attività di assistenza alla popolazione civile è centrale per la missione Onu, ricorda anche il generale Luciano Portolano, che dal luglio scorso è Force commander e Head of mission di Unifil. A questo compito, bisogna poi aggiungere le attività di cooperazione e formazione a supporto delle Forze armate libanesi; e la definizione della Blue Line (la linea di demarcazione tra i due Paesi, ndr) e il monitoraggio del cessate il fuoco tra Libano e Israele. Di questo lavoro diplomatico, Portolano si dice particolarmente soddisfatto: «I risultati raggiunti sono stati notevoli – afferma –: due Paesi che non hanno relazioni diplomatiche tra loro siedono a un tavolo per risolvere i problemi». E se fino a qualche tempo fa le due parti dialogavano tramite Portolano «adesso interloquiscono direttamente tra loro», sottolinea il generale. Ma ci sono altri elementi che i vertici di Unifil tengono costantemente sotto osservazione. Il Libano, infatti, rappresenta una sorta di "cuscinetto" tra diversi pericolosi focolai (Siria e Iraq su tutti) che rischiano di infiammare il Medioriente. Per non parlare della presenza dello Stato Islamico e di gruppi come Jabat al-Nusra nei Paesi limitrofi, che hanno già compiuto diverse incursioni nel Nord del Paese, a Tripoli come ad Arsal. Bisogna poi fare i conti con le tensioni sociali provocate dal milione e 200mila rifugiati siriani in Libano (in una nazione che conta poco più di 4 milioni di abitanti).
«Per quanto riguarda la nostra area di competenza, non abbiamo segnali né della presenza di cellule terroristiche né di altri elementi che possano destabilizzare la zona – rassicura Portolano –. In ogni caso, non restiamo in attesa degli eventi: per questo ho dato indicazione ai comandanti che operano sul terreno di svolgere attività di prevenzione, per evitare che la situazione possa deteriorarsi». Tra quelle che vengono incentivate, vi sono i cosiddetti "market walks", pattuglie appiedate che monitorano mercati e altre aree pubbliche, talvolta con la presenza delle Forze armate libanesi. «Questo ci consente di controllare costantemente la situazione e di prevenire possibili attacchi ostili – conclude Portolano –. E in più fa migliorare i nostri rapporti, già ottimi, con la popolazione civile. E proprio le cordiali relazioni con gli abitanti, oltre che con i leader religiosi locali, sono state uno degli elementi del successo di Unifil».
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