domenica 14 novembre 2010
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È molto probabile che gli uomini forti della giunta militare di Myanmar, decidendo di mettere fi­ne agli arresti domiciliari e all’isola­mento totale di una donna piccola ed esile divenuta un’icona della lot­ta pacifica per la democrazia, pensi­no di trarre qualche vantaggio in ter­mini d’immagine agli occhi del mon­do, senza correre troppi rischi sul piano della stabilità interna. Prean­nunciata da tempo, la liberazione di Aung San Suu Kyi è avvenuta pun­tualmente sei giorni dopo una con­sultazione elettorale cui ha potuto partecipare un’opposizione addo­mesticata, in vista di una dittatura più morbida dove ai militari s’af­fiancheranno per la prima volta an­che dei civili. Hanno calcolato ogni mossa i gene­rali di Yangon ma, a quanto pare, i­gnorano le lezioni della storia. Era il 1986, quando venne liberato il più il­lustre dissidente dell’Unione Sovie­tica, Andreij Sacharov. Confinato in esilio interno nella città di Gorkij in­sieme con la moglie, lo scienziato in­ventore della bomba atomica dive­nuto poi il paladino dei diritti uma­ni nell’Urss venne rilasciato su deci­sione di Gorbaciov. Nelle intenzioni del leader della perestrojka doveva essere un segnale d’apertura e di cambiamento del rigido sistema co­munista bisognoso di riforme. Cin­que anni più tardi, Gorbaciov fu co­stretto a lasciare il potere e l’Unione Sovietica cessò di esistere.Qualcosa del genere era successo po­chi anni prima nella Polonia del ge­nerale Jaruzelski. Dopo aver messo fuori legge Solidarnosc e incarcera­to i suoi dirigenti, il capo della giun­ta militare polacca, nel 1982, ridiede la libertà a Lech Walesa, considerato ormai dal regime niente più che un «privato cittadino». Finì, come tutti sanno, con la caduta del comunismo in Polonia nell’estate del 1989, pri­ma breccia nel Muro di Berlino, che sarebbe crollato di lì a pochi mesi.Ma gli esempi non si limitano ai re­gimi comunisti. Nel 1990, in Sudafri­ca, il leader dell’African National Congress, Nelson Mandela, dopo 26 anni passati in prigione tornò in li­bertà e avviò un negoziato con il pre­sidente De Klerk destinato a portare alla fine del regime dell’apartheid e alle prime elezioni libere del 1994.Sembra essere una regola: ogni vol­ta che un regime totalitario decide di rifarsi un look più rispettabile, libe­rando il leader dell’opposizione de­mocratica, ecco che si scava la pro­pria fossa. Forse è per questo che a Pechino i dirigenti del Partito comu­nista aprono le porte ai capitalisti, ma le tengono ben chiuse quando si tratta di un dissidente incarcerato, Liu Xiaobo, insignito quest’anno del Nobel per la Pace (come tutti gli ex prigionieri politici sopra citati). E sarà interessante notare cosa succe­derà nei prossimi mesi a Cuba, dopo la liberazione dell’attivista per i di­ritti umani Guillermo Fariñas e di al­tre decine di dissidenti. Se c’è qualcosa che finora ha distin­to il regime birmano in mezzo alle tante dittature ancora presenti nel mondo è stato il suo carattere parti­colarmente violento e feroce. Dalla spietata uccisione di migliaia di ma­nifestanti nel 1988 fino alla sangui­nosa repressione delle proteste gui­date dai monaci buddisti nel 2007, la giunta militare ha brutalizzato in tut­ti i modi l’antico Paese della Birma­nia fino a cambiarne il nome in Myanmar.E se oggi finalmente ha deciso di li­berare la mite ed apparentemente fragile Suu Kyi è solo perché si ritie­ne più forte che mai. Una mossa cal­colata che, alla luce della storia, po­trebbe rivelarsi un azzardo suicida per uno dei regimi più oppressivi del mondo. La libertà è contagiosa, co­me la speranza.
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