martedì 26 ottobre 2010
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Una «poli-fonia dell’unica fede», così Benedetto XVI aveva espresso la sua ammirazione ai padri sinodali riuniti a Roma per discutere del Medio Oriente. A qualcuno però devono essere suonate le orecchie, infastidite da un coro che non ha cantato secondo lo spartito di proprio gradimento. Avevamo già messo in conto malevoli interpretazioni politiche del Sinodo che si è concluso domenica. Ma non ci aspettavamo una reazione così dura e stizzita come quella del vice-ministro degli Esteri israeliano Danny Ayalon, che è arrivato a parlare di un Sinodo «ostaggio di una maggioranza anti-israeliana», in linea con la «propaganda filo-araba». Ma la maggioranza dei presuli che hanno partecipato al Sinodo sul Medio Oriente è araba. Non c’è da sorprendersi se nei loro giudizi vibra lo sdegno per una situazione piena di difficoltà che vivono sulla propria pelle. Tanto più che al Sinodo si sono levate voci molto critiche non solo nei confronti d’Israele ma anche dell’islam politico e della mancanza di libertà religiosa nei Paesi a maggioranza musulmana. Certo, nel corso di due settimane di dibattito caratterizzato da una grande libertà e franchezza, non sono mancati toni fortemente polemici. Ma la valutazione complessiva, come ha spiegato ieri il portavoce vaticano, «deve attenersi al testo del Messaggio finale del Sinodo» e appare «grandemente positiva». Riferendosi all’occupazione israeliana dei Territori palestinesi i padri sinodali hanno scritto che «non è permesso di ricorrere a posizioni teologiche e bibliche per farne uno strumento a giustificazione delle ingiustizie». Portavoce del governo d’Israele rigettano l’accusa, «i governi israeliani non si sono mai serviti della Bibbia», dicono. I governi no, ma i coloni appoggiati e finanziati anche dai governi, sì. Ci permettiamo una domanda: è il Sinodo ostaggio di una maggioranza anti-israeliana o non è piuttosto il governo Netanyahu condizionato di chi tira in ballo la Parola di Dio per giustificare la continua espansione degli insediamenti? Quel che appare sorprendente e improprio nella replica del vice-ministro è l’accenno a possibili ripercussioni sugli «importanti rapporti tra Santa Sede, Israele e gli ebrei». In questo modo si rischia di creare una gran polverone, confondendo la questione teologica con quella politica, facendo caricatura della voce della Chiesa cattolica per poterla accusare di regredire a posizioni pre-conciliari. Come se il Sinodo avesse voluto cancellare quel legame di solidarietà profonda fra Chiesa e popolo ebraico che si colloca «a livello della loro stessa identità spirituale», secondo la bellissima definizione data da Benedetto XVI nella sua visita alla Sinagoga di Roma. L’assemblea dei padri sinodali ha condannato con fermezza l’anti-semitismo politico e l’anti-ebraismo religioso. E anche il suo giudizio sulla situazione politica medio-orientale non si discosta sostanzialmente da quello tradizionale della Santa Sede secondo cui «il diritto alla sicurezza d’Israele deve sempre venir esercitato nel rispetto dei limiti morali e legali riguardo ai mezzi impiegati» (Giovanni Paolo II nel 2003). Da qui nasce il costante invito a una pace «necessaria e urgente» che è stato ribadito anche ieri da Benedetto XVI. E chi punta a buttarla in politica farà bene a tener presente il suo monito: «Il compito della Chiesa non è rivoluzionare il mondo, ma trasfigurarlo».
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