«Il disastro riformatore che io vedo». Ora è tempo di ri-formare fiducia
sabato 10 dicembre 2016

Gentile direttore,
continuo ad apprezzare i suoi toni “sottovoce” e il suo tentativo di annacquare la gravità di un risultato elettorale. Ma la sconfitta del referendum significa, per me e nel mio modo elementare, due cose. Una sconfitta personale, probabilmente provvisoria, del signor Matteo Renzi. Una sconfitta politica pesante, ritengo definitiva, di ogni quadro di riforma di questo Paese. Non ricordo chi scriveva che governare gli italiani non è impossibile, è inutile. Ecco. Lei sa meglio di me come il sistema politico italiano sia affossato dentro una serie di paletti che – ormai in modo definitivo, ritengo – sono impossibili da toccare. Lei, riassumendo la storia dei tentativi di riforma costituzionale, ne dimentica uno. Quello del 2001 con la modifica del Titolo V della Costituzione, che completava e rendeva “organiche” le riforme concentrate nelle cosiddette “leggi Bassanini”. Non posso essere esplicito nello scriverle la mia valutazione politica di queste due azioni politiche. Le basti che le ritengo ispirate da una logica “leninista”. Tutto è lecito pur di prendere il potere. La conseguenza è stata che il potere non è stato preso, ma l’Italia adesso ha un apparato dello Stato e della spesa pubblica ingovernabili. La riforma proposta dal signor Matteo Renzi era un tentativo coraggioso di mettere “cosmos” nel “caos”. Così ha avuto la maggioranza degli italiani, i quali pensano a se stessi prima che agli altri, come mi disse, in modo assai più volgare, un tizio che rimproveravo per il primo voto al signor Silvio Berlusconi. A questo nucleo forte si è aggiunta una parte di “sinistra idealista” che, in odio al signor Renzi, ha difeso la “Costituzione più bella del mondo”, così continuando a occuparsi di Sacra Famiglia anziché delle famiglie terrene. Ma la democrazia non è una macchina, bensì un animale. Un animale forte, eppure con delle fragilità spaventose. Per esempio deve nutrirsi di libertà – parola detta insieme sia al plurale, come piace a molti atei e anticlericali, che al singolare, come piace a noi che stiamo dietro a Gesù di Nazareth spesso dimenticando che per ciascuno di noi solo lui, il Cristo di D**, è la verità. Infine con questo risultato siamo al disastro. Politico, culturale, sociale, intimo. E non ha senso chiedersi di chi è la colpa. Ha senso chiedere perdono e agire come se l’avessimo ottenuto. Ma non è qui la chiusa della mia lettera. Essa appartiene a chi sapeva, e sa ancora nella mia fede, scrivere molto meglio di me: Cristina Campo. Il brano che le metto in epigrafe conclusiva l’ho letto proprio lunedì 5 dicembre, all’ora di pranzo. Un regalo immeritato, ma che mi godo fino in fondo. Continui, direttore, a fare la nostra vita più bella, ne abbiamo bisogno.
«... – lo sradicamento – di questo sappiamo tutto ma è proibito guardare indietro e ogni mutamento va accolto come un segno, una freccia indicatrice: anche se non sappiamo dove porti» (Cristina Campo,”Lettere a Mita”, Adelphi, Milano 1999, pag. 80, lettera del 03 novembre 1957).
Raffaele Ibba, Cagliari


Annacquare? Caro professor Ibba, intendo bene la sua intenzione. Ma rilegga bene – se vuole – ciò che ho scritto il 6 dicembre scorso in «Punto di svolta» e vedrà che c’è ben poco di attutito (e nulla di dimenticato, neanche la riforma del 2001...) nel mio ragionamento sulle opportunità e i rischi del cambio di ciclo politico a cui stiamo partecipando e assistendo. La ringrazio per le parole di apprezzamento per il mio tono «sottovoce», come lo definisce, ma soprattutto per la bella libertà (formale e sostanziale) della sua riflessione. Che ha spunti per me molto condivisibili, ma già annette alla categoria del «disastro» l’esito ampiamente negativo del referendum sulla riforma costituzionale realizzata dal Governo Renzi. Su questo mi verrebbe da dire che non siamo affatto d’accordo. E non solo perché tengo caro, e cerco di approfondire, uno sguardo meno fosco sul tempo (certamente complicato) che ci sta davanti. Semplicemente io non credo che la bocciatura della riforma sia la premessa di un disastro inesorabile, così come non ho mai creduto a chi gridava che la sua conferma e applicazione sarebbero state a loro volta un sicuro disastro democratico. Credo invece che stiamo entrando in un tempo nuovo, che nell’un caso come nell’altro avrei voluto e continuo all’unisono, mi pare, e la cosa mi conforta, con il nostro presidente della Repubblica, di “ricostruzione” – o, se vuole, di “riformazione” – del rapporto di fiducia, o almeno di non astio (o di non disprezzo) pregiudiziale e (in diversi casi, purtroppo, motivato) tra elettori ed eletti. So bene che non è detto che questa svolta accada, ma c’è la concreta possibilità che accada e che tutti noi torniamo a sentirci cittadini di una democrazia certamente perfettibile, ma – come ho scritto e auspicato – ben «proporzionata». E sono convinto che valga la pena di contribuire a un dibattito pubblico e a decisioni riformatrici (di poche e giuste regole e dello stile del “far politica”) che vadano in questa direzione. Anche questo impegno lo sento parte del nostro lavoro di “Avvenire”, un lavoro che lei, caro professore, ritiene possa aiutarci a «fare la vita più bella». Magari…
Torno sul nostro dichiarato disaccordo, che qualche riga più su ho tuttavia annotato al condizionale. C’è e non c’è, infatti. «…è proibito guardare indietro e ogni mutamento va accolto come un segno, una freccia indicatrice…» La frase di Cristina Campo che ha “regalato” a se stesso, a me e a tutti gli altri lettori mi sembra, infatti, la testimonianza di una condivisione più alta dello sforzo di interpretazione che anch’io ho fatto della parola popolare. E del compito consapevole e buono che, da cittadini e da cristiani, ci sta davanti.

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