domenica 26 settembre 2010
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Caro direttore,oggi ti racconto una storia che conosco bene. Un pizzico di ansia da superare e il telefono squilla: «Tutto va alla grande, meglio del previsto, M. ha allagato la camera, ma aveva chiuso male l’acqua della doccia. Ci stiamo divertendo un sacco». M. conferma e taglia corto: è l’ora del ballo serale. La comunicazione si chiude e l’ansia si mischia al sollievo. È la contraddizione di questa vita. La gioia del "gruppo in gita" riesce a placare la tensione. Ma l’altalena dei sentimenti va avanti. E dopo due giorni riprende. M. è «in punizione». Bofonchia e se la prende con tutti. «Ma che hai fatto tu?», azzardo. «Ho buttato un bambino nella piscina tutto vestito e lui ha pianto. La madre si è arrabbiata». L’operatore è più dettagliato, ricostruisce la scena, che prende forma ai miei occhi, al di là del telefono. Lo stomaco è stretto in una morsa, ma l’operatore è placido e mi conforta: «La colpa non era la sua e la madre era esagerata. Certo, lui non doveva allontanarsi dal gruppo, per questo è in punizione, ma tra un po’ andiamo a cena. Stai tranquilla e goditi la vacanza». Già, tranquilla. Eh sì che questa è la mia vacanza, nel senso etimologico. M. non c’è. Guardo l’angolo dei suoi farmaci e cerco di rilassarmi. Non devo preparare le dosi. Ci pensano loro, nell’albergo a quattro stelle, nel Cilento. Loro che sdrammatizzano, loro che sorridono, loro che placano le nostre angosce. E noi, i genitori dei ragazzi disabili, tiriamo il fiato. Dieci giorni. Un regalo, in una vita avara, che ci concede ben poco. Anche quando, soli senza i nostri figli, riusciamo ad alzare lo sguardo, e il mondo che ci circonda è pieno di "normalità". Quella che non ci è dato conoscere. E che forse, per dieci giorni, ci fa anche un po’ male. Però è il nostro momento e va sfruttato, perché possiamo stare tranquilli. C’è chi veglia sui nostri bambini e lo fa con il sorriso, quello stesso sorriso che si smorza, quando la normalità si scontra con i ragazzi privati di qualcosa, i disabili, diversamente abili. O, come si definisce di continuo il mio M, «noi che abbiamo un problema». Quel problema suscita pena alle famiglie "normali". Una pena umiliante per noi che invece ci siamo dentro, ben lontana dalla compassione del comune patire. La condanna alla solitudine. Ma loro no, quegli stessi operatori, gli angeli dei nostri figli, li troviamo durante l’anno, pronti a seguirli a scuola nei loro accessi di ira, nei bagni dove vanno cambiati e accuditi, come neonati, nelle crisi epilettiche … Gli stessi che passano a casa a prelevarli, per portarli alle attività, quelle che con i coetanei "normali" non potrebbero fare senza sentirsi addosso il macigno della discriminazione. Non sempre da parte dei compagni, ma quella che nasce dalla consapevolezza (a volte un solo barlume) di essere diversi. Gli operatori delle cooperative, quelle che ogni anno si aggiudicano gli appalti nei Municipi, che non hanno paura di mettere le mani in pasta, quando la pasta ha una forma sgradevole, la forma dell’handicap. E lo fanno per pochi euro l’ora, con contratti a progetto. Giovani e meno giovani, laureati a volte sui banchi e sempre sul campo. Ebbene, quegli operatori che spesso non hanno neanche la certezza della busta paga, perché quando cominciano i tagli, dal governo centrale fino a quello locale, la scure si abbatte sui più deboli e loro restano a bocca asciutta. Dopo un lavoro per niente invidiabile dai più. Noi, le famiglie, viviamo con angoscia ogni notizia di manovre economiche: sappiamo con certezza che qualcosa andrà a toccare i servizi che ci sono concessi. Una volta la scure parte dai Palazzi romani, un’altra dalle Regioni, ancora dai Comuni o dai Municipi. E ora, che il governo "tira la cinghia", a stringersi sembrano essere i finanziamenti erogati dalle amministrazioni locali. Per le famiglie dei disabili, che già hanno visto il balletto degli assistenti, che ruotano a seconda se la loro cooperativa è di destra o di sinistra o di centro e a seconda del colore che domina nel Comune, comincia un nuovo anno. Per tanti operatori nella Capitale non è ancora finita l’estate: gli stipendi non arrivano e l’inverno con le nuove attività avanza. Il loro lavoro e il loro sorriso viene considerato molto poco. Come le loro famiglie. E anche le nostre.
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