domenica 23 marzo 2014
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Celebrare la Giornata di preghiera e digiuno per i Missionari Martiri dovrebbe indurci a una seria riflessione e a un discernimento sulle ragioni profonde della nostra identità cristiana. Non c’è fede in una verità rivelata cui la storia non aggiunga qualcosa attraverso la testimonianza di coloro che per essa hanno dato la vita. E sono tanti i cristiani che lo hanno fatto per la causa del Regno.
È così che la profezia non solo diventa intelligibile, ma ci consente di svelare le nostre debolezze, soprattutto il timore di osare. Ed è proprio questa la discriminante tra le 'sentinelle del mattino' di cui è doveroso, ogni 24 marzo, fare memoria, e coloro che vorrebbero starsene tranquilli, lontano dalle turbolenze, senza sperimentare problemi di sorta. Con tali premesse, la cosiddetta Martyria, efficace titolazione di questa Giornata, nelle intenzioni dei promotori del Movimento Giovanile Missionario (Missio Giovani), vuol dire accettare che tutto, o qualcosa, possa anche essere o diventare diverso rispetto alle proprie attese.
Una speranza, quella generata dal martirio, che fa del sacrificio un’occasione di verifica, evitando a coloro che stanno oziosamente racchiusi nelle proprie 'sacrestie' d’essere delle semplici comparse. Non è un modo di ripiegarsi nell’annullamento di se stessi, non è l’accettazione di una svalutazione della propria esistenza per privilegiare a tutti i costi la dottrina. Al contrario, parafrasando Papa Francesco nella sua recente Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, è l’affermazione di una «realtà» che «è più importante dell’idea» (231), evitando così di scadere nella solita retorica di circostanza. Questi missionari e missionarie caduti nell’esercizio del proprio ministero non solo sono passati a miglior vita come negli auspici di ogni comune mortale, ma hanno incarnato col loro agire il messaggio evangelico, rendendolo decisamente credibile. Questa giornata, che coincide col dies natalis di monsignor Oscar Romero, compianto arcivescovo di San Salvador, ci impegna al di là delle nostre stesse forze, le quali tendono semmai all’orgoglio, alla rassicurazione rispetto a noi stessi, alle nostre idee, al piacere della coerenza, alla militanza a tutti i costi, anche la più ottusa.
Dietro al martirio non c’è l’interesse di parte, semmai il suo opposto, una gratuità in cui il gesto estremo ha preceduto le parole, quelle della commemorazione. Nel contesto esistenziale che ci appartiene, essere credenti significa, innanzitutto e soprattutto, essere capaci di cogliere la certezza di una presenza, quella di Cristo, vivendo secondo il Vangelo, proprio come hanno fatto i ventidue missionari deceduti in modo violento nel 2013. Per noi come per loro il termine di riferimento è quel Dio crocifisso che appare a molti contemporanei più eloquente dell’Altissimo onnipotente e trascendente, apparentemente lontano e absconditus.
Ma, al di là delle interpretazioni possibili sulla deriva contemporanea, ciò che oggi urge davvero è la definizione di uno stile di vita rispetto a cui porre l’ethos non soltanto come modus vivendi, ma anche come fondamento del vivere, dell’agire e del morire umanamente. Il martirio dei nostri missionari possa costituire l’occasione di riconoscere il volto del Dio Vivente nei tanti 'abbandonati' disseminati nei bassifondi della storia, nelle vittime della miseria e dei genocidi che continuano a perpetrarsi, fino ai nostri giorni. «Perché per trovare i martiri – come ci ha ricordato Papa Bergoglio – non è necessario andare alle catacombe o al Colosseo: i martiri sono vivi adesso, in tanti Paesi». E il grido di queste vittime innocenti, che non conta affatto per i distratti, provoca un bisogno di trascendenza, di uscita da sé verso gli altri, verso l’Altro. Solo così potremo fare nostre le parole del vescovo Romero rivolte ai poveri: «La mia vita appartiene a voi».
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