lunedì 5 gennaio 2015
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Ferite vere, ferite finte. Le prime stanno sul volto di Pietro Barbini, il ventiduenne aggredito con l’acido muriatico a Milano esattamente una settimana fa. Le seconde le esibisce sulle spalle uno dei suoi aggressori, Alexander Boettcher. Sono tatuaggi di gusto grossolano, che dovrebbero accentuare il fascino perverso di questo trentenne benestante, forse annoiato, di sicuro abituato a giocare con le vite degli altri. Compresa quella di Martina Levato, che di anni ne ha 23, al liceo è stata compagna di Pietro e adesso intrattiene con Alexander un legame talmente morboso da suscitare inquietudine negli stessi investigatori. Anche la ragazza ha la sua ferita, che è vera e finta insieme. È stato lo stesso Alexander a procurargliela con un bisturi che, a quanto pare, l’uomo tiene in casa per l’occasione. Una piccola A incisa sulla pelle del volto. A come Alexander, si capisce. Inutile scomodare l’Hawthorne della Lettera scarlatta, dove il medesimo segno viene imposto all’adultera Hester Prynne come marchio d’infamia. Più probabile che l’idea sia stata raccattata da qualche immagine pubblicitaria con provocazione incorporata.Da dove viene questa storia? E dove porta? Per la prima domanda una risposta c’è già, magari parziale, ma comunque indicativa. A quanto risulta, infatti, Pietro è stato punito per essersi intromesso nella relazione tra Martina e Alexander. O almeno così, come un’intromissione, è stato interpretato il suggerimento di troncare la frequentazione con un uomo sposato e dai comportamenti ambigui. Poi viene Natale, Pietro invia un messaggio di auguri a Martina e tanto basta per mettere in moto il risentimento e l’agguato. A gettare l’acido è stata la ragazza. Alexander, che la accompagnava, doveva intervenire dopo, a colpi di martello. Più virilmente, se virile può essere considerata questa caricatura della forza e della volontà di potenza. Boettcher è di origini tedesche, da quelle parti gli studenti avevano l’abitudine - un secolo fa o giù di lì - di sfidarsi a duello per rimediare una cicatrice da sfoggiare in viso. Lui, più prudente, infligge ferite agli altri e per sé si accontenta di qualche decalcomania, sia pure permanente. Anche se poi, volendo, con il laser cancelli tutto e non ci pensi più.Colpisce il ruolo di Martina, che non solo è l’esecutrice materiale dello sfregio, ma pare si fosse persuasa, in un primo momento, di esserne anche l’ideatrice. Colpisce, più che altro, il brodo di coltura di queste passioni incanaglite, che non scaturiscono, una volta tanto, da un sottoproletariato assuefatto  alle crudeli ritualità della violenza. È una storia di gente "perbene", questa. Martina che frequenta con profitto la Bocconi, Alexander che vive amministrando il patrimonio immobiliare della madre e intanto avanza tempo per la palestra. E Pietro, che fino a una settimana fa studiava a Boston e ora rischia di perdere l’occhio destro. Per non parlare delle ferite, delle cicatrici che, in parte, gli resteranno addosso.Nonostante tutto, però, ancora non sappiamo quale sarà la morale di questa favola che, alle prime battute, si annuncia tenebrosa come quella di Barbablù. Perché fra le tante anomalie della vicenda ce n’è un’altra, sorprendentemente positiva, su cui occorre soffermarsi. È rappresentata dalla dignità silenziosa dei genitori di Pietro (nessuna dichiarazione, nessuna recriminazione: qualche parola su di loro, ma non per conto loro, ha voluto dirla un’insospettabile Alba Parietti, da tempo amica di famiglia), ma anche dal dolore imbarazzato dei genitori di Martina. Si sa di un loro incontro, di un dialogo privato tra questi padri e queste madri travolti da qualcosa che non si sa neppure come definire: dramma, equivoco, tragedia.Un segnale di speranza, che può valere come un promemoria per tutti noi. Le ferite vere sono terribili, ma possono guarire. A infettarsi sono semmai le ferite finte, che non sanguinano, non redimono, non invocano perdono.
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