venerdì 19 marzo 2010
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Caro direttore,sono un lettore assiduo di Avvenire. Le scrivo a cuore aperto alla luce delle recenti polemiche in Germania sulla pedofilia nella Chiesa, e spinto soprattutto dalle prese di posizione sulla possibilità di rivedere o ripensare il celibato presbiterale. Non ho dissertazioni dottrinali da fare, ma semplicemente intendo portare la mia (anche se piccola) esperienza. Ho 32 anni, e dai 23 ai 29 anni sono stato nel Seminario diocesano di Torino. Nel 2007 ho interrotto il mio percorso in tutta serenità e con tanta gratitudine nei confronti di Santa Madre Chiesa e dei formatori che mi hanno aiutato a comprendere la strada che il Signore mi indicava. Molte persone nei mesi successivi alla mia uscita dal seminario mi hanno chiesto: «Ma sei uscito perché non riuscivi a sopportare l’idea del celibato? Certo che se i preti potessero sposarsi i seminari sarebbero pieni e la Chiesa sarebbe più aperta su certi temi!». La mia risposta è stata ed è sempre la stessa: il celibato non è una semplice condizione storica dei presbiteri, ma porta in sé una ricchezza e un significato che vanno ben oltre. Nei miei anni da seminarista ho vissuto con preti che mi hanno fatto toccare con mano la paternità che il ministero può donare e che, seppur diversa dalla paternità e maternità dei genitori esplicitata in particolare nella famiglia, è altrettanto fondamentale perché rivolta a tutti senza distinzioni o prevalenze, giovani e meno giovani, uomini e donne. Sono insegnante di religione e spesso mi trovo a lavorare con ragazzi che sebbene figli biologicamente di un padre e una madre, mancano di quel calore e di quell’abbraccio paterno che è necessario a ognuno, e purtroppo anche nel mondo della scuola i risultati (in negativo) di tutto ciò si vedono e non sono di facile soluzione. Quanti di noi ricordano con riconoscenza l’incontro con un prete, magari anche solo poche parole, ma che in quel particolare momento della loro vita hanno rappresentato quell’abbraccio benedicente e consolante del Padre in cui abbandonarsi e sentirsi, nonostante tutto, amati e accolti! Questo è anche il suggerimento che ci viene dal Vangelo della IV domenica di Quaresima. Certo un celibato vissuto come frustrazione non ha possibilità di durare, ma proprio qui sta la risposta a quanti sostengono che se i preti potessero sposarsi, il problema (o presunto tale) sarebbe risolto: un «sano» celibato può essere tale solamente se vissuto in una profonda intimità con il Signore, intimità che non si acquisisce da un giorno all’altro ma con il tempo e la preghiera (nel caso del presbiterato sin dagli anni della formazione in seminario). Infatti solo chi sperimenta e riconosce il profondo e incondizionato Amore del Padre, può a sua volta donarlo al prossimo, chiunque esso sia. Quando questo Amore tutto colma, ecco che allora si ha un celibato che diviene non un sacrificio ma un dono di portata inimmaginabile. Lo stesso, calato però nel particolare della piccola chiesa domestica che è la famiglia, per un marito o una moglie che desiderano vivere da cristiani il loro matrimonio: l’amore dei coniugi rimanda all’Amore di Dio per l’uomo che ha il suo culmine in Cristo e ne trae forza. Si discuta pure sulla possibilità di preti sposati, ma non si cada nell’illusione che sia il fulcro della questione: alla radice di tutto c’è una scelta di fede alimentata nella preghiera; se questa manca, non vi può essere nulla di duraturo, sia essa un vita nel ministero o una vita nel sacramento del matrimonio. Ciò non risolverebbe affatto il problema della pedofilia, la quale è e resta un’aberrazione; si commetterebbe un passo falso se si ritenesse che le problematiche del celibato presbiterale possano condurre alla pedofilia. Essa è un fenomeno che esiste a prescindere e che presenta molteplici facce e ramificazioni nelle varie realtà, non esclusa purtroppo anche quella ecclesiale.

Andrea Musso, Torino

Caro direttore,sono un diacono permanente coniugato e scrivo in merito ad un intervento pubblicato mercoledì 10 marzo sul celibato dei preti. Non voglio entrare in merito alla opportunità della regola romana del celibato dei sacerdoti, anche se sono certissimo che non è «il celibato la radice di ogni male». Pur tuttavia, vorrei precisare e sottolineare un aspetto per me fondamentale. L’articolo a cui mi riferisco parla di «scegliere con gioia e libertà di donarsi totalmente a Dio»: credo che questa non sia una prerogativa del celibato e dei preti, ma sia la vera e fondamentale prerogativa di ogni vero cristiano. In altre parole, chi si sposa non si dona a Dio? O forse il suo è un dono parziale, incompleto? Eppure la Bibbia inizia con un atto di amore di Dio che crea un uomo ed una donna, non certo un celibe. Io credo che un vero e sincero amore coniugale non ha e non avrà mai niente di meno e niente di più di un vero e sincero amore celibatario e che i coniugi, il giorno del loro sacramento, si donano «con gioia e libertà totalmente a Dio» come coniugi cristiani. C’è bisogno di persone generose che, da celibi o da coniugati, «rispondano consacrando la vita a Dio»; questa è la Chiesa che Cristo ha eletto a sua sposa a partire dal Papa fino all’ultimo dei cristiani (ammesso e non concesso che esista un ultimo dei cristiani).

Piero Pierattini, Pistoia

Le vostre testimonianze, cari amici, nella diversità di timbro concorrono tuttavia a far cogliere la somma di valori e la ricchezza di riflessioni e motivazioni che spingono alla «scelta per il Signore». Una decisione che il celibato esprime in forma totalizzante, ma che è presente in modo eminente anche nel sacramento del matrimonio. Quanto lontani certi commenti di questi giorni... (mt)
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