martedì 30 dicembre 2014
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Perdonate l’entrata a gamba tesa. Ma – alla vigilia dei festeggiamenti per il passaggio all’anno nuovo, nel segno dell’allegria quando non della trasgressione più spinta – penso sia utile tornare a riflettere sul primo dei mali che Papa Francesco ha additato nell’ormai famoso discorso alla Curia romana il 22 dicembre scorso: l’illusione dell’immortalità.  «Un’ordinaria visita ai cimiteri – diceva il Papa – ci potrebbe aiutare a vedere i nomi di tante persone, (...) alcuni forse pensavano di essere immortali, immuni e indispensabili! È la malattia del ricco stolto del Vangelo che pensava di vivere eternamente».  Curioso: stiamo per festeggiare un anno che se ne va e un altro che arriva e, senza accorgercene, non facciamo altro che celebrare la nostra provvisorietà.  So di passare per guastafeste, ma la verità è questa: stappiamo champagne e brindiamo all’anno nuovo e intanto, lentamente, ma inesorabilmente, il tempo scivola via. E «the final countdown» – l’unico vero conto alla rovescia che dovrebbe interessarci – si avvicina implacabile. Per quanto ci possiamo ubriacare di emozioni nella notte dell’Ultimo dell’anno, stiamo inneggiando al tempo che si consuma (o che ci consuma). E la verità, difficile da accettare, è che sotto il profilo esistenziale siamo tutti precari. Dall’ultimo degli stagisti al banchiere svizzero, dall’operaia stagionale all’imprenditore sulla cresta dell’onda. Davanti a sua Maestà il tempo siamo tutti uguali. Punto.  Matteo Ricci, il grande gesuita pioniere della missione moderna in Cina, di questa provvisorietà aveva una coscienza chiarissima: al ministro Li Dai che gli chiese l’età (Ricci stava per compiere 50 anni) rispose: «Il tempo è soltanto il brevissimo momento presente, simile a un cavallo bianco al galoppo, che in un istante sparisce ai nostri occhi».  Pensiamoci, per un attimo. La Grande Amnesia di oggi consiste nel continuare a pensare che 'abbiamo tempo', anziché renderci conto del fatto che 'siamo tempo'. Uno dei segni più vistosi di questo 'Alzheimer collettivo' è l’abitudine a programmare il domani, stipulando contratti, assicurazioni, ipotecando il futuro come se fosse nostra proprietà.  E la pubblicità fa di tutto per convincerci della nostra terrena immortalità: dalla crema anti-rughe alle polizze anti-tutto, dagli 8 airbag alle porte blindate, tutto è pensato come se la nostra sorte fosse definitivamente ancorata a questa terra.  È una malattia tipica delle società benestanti, laddove i consumi anestetizzano (o cercano di farlo) la percezione del tempo che scorre ineluttabilmente.  Si fa un gran parlare di energie rinnovabili, delle risorse a rischio del pianeta; peccato che pochi si interroghino sul più prezioso e meno rinnovabile dei tesori dell’uomo: il tempo. Come mai? La verità è che abbiamo dimenticato una delle preghiere più belle – ma anche più scomode – contenute nella Bibbia.  «Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore». La percezione, serena, del limite è quindi il primo passo per recuperare l’antica saggezza. Dice una splendida poesia di Fernando Pessoa: «Di tutto restano tre cose: la certezza che stiamo sempre iniziando, la certezza che abbiamo bisogno di continuare, la certezza che saremo interrotti prima di finire». Occorre ripartire da qui: dalla coscienza che, in questo tempo che fugge, si gioca la nostra avventura che, per chi crede, non finisce il giorno della nostra morte. Il grande teologo Karl Rahner, in una sua 'Meditazione sull’anno nuovo', chiamava questa coscienza «il mistero dell’eternità nel tempo». E spiegava: «Non posso prendere sul serio ciò che mi porterà il nuovo anno, perché fintanto che con la mia esistenza passo attraverso il tempo che fluisce, credo sempre che non ci sia altro che questo. Devo sempre risvegliarmi: l’eterno avviene in me d’un tratto e per sempre, adesso, mentre penso che non sia tanto importante ciò che corre e fugge via. Vieni dunque, anno nuovo!».
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